SEMINARI ESTIVI, 21-29 AGOSTO 2000
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(vai al: Seminario sull' Epistola agli Ebrei)
“Io, Daniele, guardavo nella mia visione”: il libro di Daniele,
21-25 agosto 2000.
Relatori Padre Giovanni Boggio e Gabriele Boccaccini con un intervento di Piero Stefani

Ad una prima lettura il libro non presenta grandi difficoltà. Consiste in una serie di racconti, ambientati alla corte di Babilonia durante l’esilio seguito alla distruzione di Gerusalemme nel 586 a.C. Ma se poi si legge con attenzione, ci si accorge che vi sono particolari discordanti tra di loro e con i dati storici che conosciamo. Al contrario, ci sono riferimenti troppo precisi ad avvenimenti storici di un’epoca più recente di quella presentata come cornice ai racconti. Inoltre, il testo di Daniele è giunto a noi in tre lingue, nella sua redazione più completa. Il libro inizia in lingua ebraica per passare poi alla lingua aramaica e concludere con l’ebraico. A queste due lingue va aggiunto il greco che ci ha consegnato due racconti e una preghiera sconosciuti al Daniele ebraico-aramaico.  Come si spiega un libro scritto in tre lingue diverse?
Tutto ciò fa sorgere la domanda: che cosa può dire a noi un libro come questo?
Seguendo le indicazioni suggerite dai dati storici più recenti contenuti nel libro di Daniele, si può ambientare la sua composizione attuale all’epoca maccabaica. Sappiamo dai libri dei Maccabei quali difficoltà abbiano dovuto affrontare gli Ebrei per mantenersi fedeli alla loro religione sotto il dominio di Antioco IV.
Daniele si può comprendere solo se si tiene conto di questa circostanza. Per sostenere la fede non era possibile usare un linguaggio troppo esplicito. Era necessario parlare per enigmi, mettere in gioco personaggi del passato, parlare di avvenimenti lontani, conosciuti attraverso qualche tradizione popolare, che potessero però adombrare i fatti della cronaca contemporanea. Era un raccontare in cifra, e solo chi ne conosceva la chiave poteva comprenderne il messaggio. Le oscurità erano volute, le ambiguità erano cercate ed erano condizione di sopravvivenza.
Prende così forma definitiva un tipo di linguaggio che si affermerà nei decenni (e secoli) successivi agli avvenimenti che hanno portato alla composizione di Daniele, quello che chiamiamo: linguaggio apocalittico.
Un messaggio di speranza, anche quando sembra di aver toccato il fondo della disperazione. Alla fine il trionfatore sul male sarà Dio che instaurerà il suo regno nonostante l’opposizione dei suoi nemici. Nessuna potenza umana potrà impedire la realizzazione dei progetti di Dio sulla storia umana. Tutti i racconti del nostro libro si concludono con il riconoscimento della grandezza di Dio anche da parte dei suoi oppositori.
Daniele è pervaso da un ottimismo a tutta prova, pronto a sfidare anche quelle che, dal punto di vista puramente umano, potrebbero sembrare autentiche sconfitte del bene di fronte alle forze del male. Con linguaggio moderno potremmo definire Daniele un pacifista, un sostenitore della non violenza, della resistenza disarmata, un Ghandi “ante litteram”.
Ma non è un debole, perché descrive la fine dei nemici di Dio con termini drammatici, appunto “apocalittici” secondo il significato che il termine ha assunto nel linguaggio corrente. Solo che la punizione dei malvagi non è operata dall’uomo, ma da Dio stesso, che interverrà nel momento che lui solo ha stabilito.
Dopo questo intervento, i fedeli a Dio godranno una vera pace e vedranno riconosciuti i propri diritti e meriti nel regno di “giustizia e di pace che non avrà fine”.

Bibliografia  ridotta
Benito MARCONCINI, L’apocalittica biblica, in Logos. Corso di studi biblici. Profeti e apocalittici, vol. 3, pag. 193-244, Elle Di Ci, Leumann 1995.
Benito MARCONCINI, Apocalittica. Origine, sviluppo, caratteristiche di una teologia per tempi difficili, Elle Di Ci, Leumann,  1985.
Gian Franco RAVASI, Daniele e l’apocalittica, EDB, Bologna 1990.
Vedere le voci Apocalittica e Daniele nei Dizionari biblici.
Consultare i commenti a Daniele nelle varie collane o nelle monografie sui Profeti.


“Io, Daniele, guardavo nella mia visione”: il libro di Daniele” (21-25 agosto).
Relazione

I relatori di questo seminario sono stati padre Giovanni Boggio, il prof. Gabriele Boccaccini e si è avuto infine un intervento del prof. Piero Stefani, il tutto organizzato al meglio dalla vivace Presidente di Biblia, Agnese Cini Tassinario.
I due relatori sono stati molto apprezzati sia per la loro ampia preparazione sia per il calore partecipativo alla lettura analitica completa del testo. Padre Boggio insegna Sacra Scrittura a Viterbo; ha vissuto a Gerusalemme la guerra dei sei giorni, ritiene la Bibbia uno strumento di unificazione, e ha lavorato molto con i Valdesi sull’Antico Testamento. Il prof. Boccaccini, d’origine fiorentina, vive e lavora al Centro Studi Giudaici presso l’Università del Michigan e crede nella conoscenza comune dei testi.
È stata un’esperienza vivificante e trasformatrice per tutti coloro che hanno partecipato e il discutere per ben quattro giorni interi su questo speciale testo, ha prodotto una circolare esaltazione del pensiero che continuava anche fuori dai “lavori”. Insomma, questi libri della Bibbia sono dei bei pretesti per studiare e discutere assieme e far lievitare lo spirito.
Non ho né la preparazione, né l’immodestia di parlare ampiamente di codesto testo, ma mi piace comunque esprimere alcuni momenti, passaggi, individuazioni morali e teologiche.
Sebbene nella tradizione rabbinica si considera questo testo non rispondente alla tradizione biblica, si ravvede in Daniele il sapiente ma non il Profeta, quindi si sono prese delle distanze. Ciò non di meno il testo è pregnante di alti valori simbolici e ha causato influenze storiche, anche in letteratura e poesia. Infatti anche Dante, nel XIV Canto dell’Inferno riprende il tema del sogno e delle visioni di Daniele; senza parlare delle analisi effettuate da Calvino e da Lutero fino ai sosenitori della cosiddetta Quinta Monarchia all’epoca di Cromwell, come ci ha raccontato Piero Stefani, relatore finale arrivato in bicicletta da Chiusi.
Veniamo però alle visioni che Daniele interpretò per il re Nabucodonosor. Egli è solo un tramite poiché è l’angelo Gabriele che gli spiega le profezie.
I capitoli dall’1 al 6, dal punto di vista storico, furono scritti e pensati prima della rivolta dei Maccabei, i quali indeboliranno il potere dei sacerdoti, troppo esclusivi nella custodia della Torà, e riusciranno a portare la Legge in mezzo al popolo, a tutti.
L’uso di due lingue nel testo, l’aramaico, lingua franca, e l’ebraico è il suo aspetto più caratteristico e misterioso. C’è da osservare che vi è nel testo un’unità strutturale con messaggi precisi in prospettiva del Giudizio.
Quali sono questi messaggi?
Daniele, depositario delle rivelazioni divine, ma il cui potere è di origine divina, cioè Dio lo dà e Dio lo può togliere;  la fedeltà intesa come sapienza della Legge. Daniele mette in guardia contro il rischio dell’idolatria: l’unica rivelazione si è compiuta solo attraverso la Legge data sul Sinai.
Nei capitoli 10 e 12 si sottolineano i passi morali, affinché si raffermi l’idea del giudizio, della responsabilità individuale e del primato dell’azione che ha un valore verso il Patto, quindi la fede chiamata a identificarsi nel comportamento individuale.
Sono scaturite ovviamente molte domande, anche perché il prof. Boccaccini, risalendo alla tradizione enochica, ha fatto delle analogie con alcuni passaggi del testo, quale la profezia del Figlio dell’Uomo, le varie concezioni messianiche, il concetto di male, anche come forza che vuole distruggere l’ordine creato da Dio, ma la Torà attraverso i suoi custodi, i Sacerdoti, cerca di riportare l’ordine e di affievolire l’impurità attraverso le mitzwot (precetti) le quali mettono il dito nella piaga, piaga umana anche oggi, cioè il paradosso di essere ciò che non si è e non essere ciò che si è.

Myriam Polacco


In margine al seminario su Daniele
 

Pensare ai margini è forse la posizione e il comportamento di chi, attratto dai libri di uno dei due canoni -ebraico e cristiano- nel riconoscere questa attrazione si chiede “perché e che cosa”, senza voler sostituire immediatamente alla domanda le risposte dell’una o dell’altra tradizione (comunque non cosí imperative e indifferenziate), volendo coglierne piuttosto il senso, cioè l’orientamento, la realtà verso cui esse muovono e il movimento che le fa sorgere.
Siamo con il libro di Daniele, storicamente importante per le origini del giudaismo rabbinico (centralità della Torà, responsabilità individuale distinta da quella del popolo, attesa della resurrezione) e del cristianesimo (il Figlio dell’uomo come incaricato di una particolare missione storica, inteso poi come individuo celeste -non divino-, quindi identificato con Gesù di Nazaret, la cui figura si carica di una funzione messianica risolutiva, il cui compimento è però spostato in un tempo della fine, non ancora sopraggiunto).
Dice lo storico, cui si deve il merito della scoperta dei vari strati e passaggi di tradizione: non spetta a me in quanto storico mettere insieme aspetti contradditori e conflittuali risultanti dalla documentazione interpretata e dalle riletture messe in luce; c’è A e c’è non A, la concezione del tempo chiuso e computabile, in cui la volontà stessa del Creatore è catturata ed espressa nell’ordine cosmico, e c’è lo spazio di libertà per la confessione e il ravvedimento, in grado di influire sul futuro degli accadimenti e di mutarlo. Non spetta allo storico dire che cosa il teologo (o l’interessato al messaggio biblico) possa trarne.
Dice l’esegeta: un conto è il senso letterale, ciò che l’autore al suo tempo ha voluto dire, un altro il senso che può attribuirgli un tempo o un’esperienza religiosa diversa. Non c’è legame tra di loro, se non come relativa eventuale affinità di situazioni.
 Ma l’una e l’altra risposta sfuggono il problema: che cosa mi induce - una volta riconosciuta la complessità e la contraddizione, come pure il sovrapporsi dei significati e il loro estendersi ad ambiti impropri - a cercare il senso di quelle espressioni e di quei libri? Non certo una volontà sistematica, inutile tentativo di ignorare i contrasti, né un progetto apologetico, deciso preliminarmente a far dire al testo solo determinate cose. Tentativi che crollerebbero su se stessi; non può esserci né teologia come sistema di nozioni coerenti a loro astratti principi, né ermeneutica attualizzante secondo esperienze di vita che non appartengono agli autori.
Che forma ha dunque l'interesse del lettore (o ascoltatore) del testo dell'uno o dell’altro canone, criticamente avvertito, ma non positivisticamente pronto a separare i due piani dell'esperienza - quella scientifica e quella dell'ascolto - ma anzi pronto a riconoscere - nonostante tutto- qualcosa che dal testo biblico lo chiama, gli si rivolge, rendendolo non indifferente?
Questo "qualcosa" è indipendente dalla sua volontà e dalla sua disposizione, perciò non può essere analizzato, condotto cioè alla misura di un elemento accessibile, non ha la capacità di pressione di un condizionamento, da cui non ci si libera, perché incontrollabile; è qualcosa che posso riconoscere - ed è libertà nel farlo - senza alcuna garanzia o controllo. È un riconoscere “nonostante",  cioè  senza certezza delle implicazioni e senza garanzia delle conseguenze, ma non senza coscienza critica. Questa è data dall'autonomia dell’iniziativa manifesta nel porsi delle espressioni verbali, nella non riducibilità di chi parla in esse a semplice figura del soggetto umano che le formula e le trasmette. Coscienza critica inerente specificamente ai testi dei canoni biblici, indicante un essere del lettore tra gli uni e gli altri significati storici, talvolta opposti, che il testo esprime, senza mediazione: un pensiero ai margini, in posizione instabile e quanto mai insicura.
Ma questo è un pensare? 0 uno stato di sospensione indefinito, più uno stato d'animo che una forma definita da relazioni nell'ambito dei dati di riferimento reali?  È un pensiero, nel senso di un riferirsi a qualcosa senza poterlo comprendere, rappresentare, un essere in relazione non per iniziativa del soggetto, ma in quanto ci si riconosca nella relazione e nella domanda che questo “qualcosa” pone. Così, ai margini della storia, ci si chiede: che cosa mi vien detto, in questo risultato conflittuale della ricerca scientifica? E ai margini dell’esegesi: che cosa mi risulta, dalle diverse letture e interpretazioni date al testo nel tempo? Pensare ai margini è appunto il non potersi fermare a una posizione, per quanto fondata, non in forza di un’ulteriore esigenza fondativa, ma perché si è in qualche modo sollecitati a “guardare meglio”. È una richiesta che viene da una parola/comunicazione, che viene dai testi: non nel senso delle cose dette nei testi, ma nel senso del “voler dire” presente negli scritti; alcuni testimoni scrivono, non esclusivamente per esprimere una loro convinzione, ma anche per trasmettere (quindi aderire in pieno a-) una convinzione che non ha origine soggettiva. C’è un voler trasmettere perché si è ricevuto, perché c’è qualcosa che va oltre l’afferrabile e il traducibile in termini di esperienza, (perciò è motivo di attenzione e di ricerca); questo dinamismo dello scrittore biblico è anche lo stimolo all’ascoltatore, perché non si limiti a una dimensione del senso, come l’unica obbligatoria e fondata, relegando le altre nell’individuale, nell’imponderabile e in ultimo inessenziale. Non c’è una base solida, ma uno stare comunque al limite: questo è pensiero nel senso di orientarsi in una direzione che la parola scritta suggerisce. Qui ha senso anche l’esigenza critica della storia, dell’esegesi, cioè nella convinzione che il testo voglia dire qualcosa, e voglia dirlo a me. Convinzione che precede ogni intervento scientifico, e viene da una fonte gratuita, riconoscibile storicamente nel suo manifestarsi sotto forme di sollecitazione, di domanda; è qualcosa di autonomo, di irriducibile alle stesse condizioni storiche.
Ma allora, lungi dall’essere ininfluente, tale “pensiero al limite” è la vera matrice di stimoli per la ricerca e di impegno scientifico. Essa ne costituisce il senso e la ragion d’essere, a meno della sterilità problematica.  Dall’interesse per un testo -o meglio per ciò che in esso possa esser detto- all’esegesi e alla critica storica, senza un punto d’arrivo definitivo, per l’offerta comunicativa che si ripropone.
L’autore di Daniele, che produce un testo ambiguo per quanto riguarda la concezione del tempo (predeterminazione degli eventi, o libertà delle decisioni, in grado di far tornare le decisioni divine sui loro passi), dimostra in effetti un pensiero che non può stabilizzarsi in un centro, in rappresentazioni coerenti, ma sta sempre al limite delle posizioni, nella necessità di relativizzarle. I seguaci di Gesú, che trovano in Daniele suggestioni per la loro esperienza, ne assumono il senso, cioè la direzione del tempo verso una fine, ma si chiedono come questa funzione di compimento possa essere attuata da un messia umano, che non abbia un mandato del tutto speciale, una relazione unica con il suo Signore.
Non abbiamo, accanto alle analisi critiche, verità teologiche come risposte sicure ai problemi interpretativi, ma un pensiero come relazione in atto, tentativo di lasciarsi coinvolgere nel movimento comunicativo che attraversa le parole dei testi e risveglia l’interesse degli ascoltatori, unica fonte dell’adesione personale e della problematica critica.

Maria Cristina Laurenzi


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