Ad una prima lettura il libro non presenta grandi difficoltà.
Consiste in una serie di racconti, ambientati alla corte di Babilonia durante
l’esilio seguito alla distruzione di Gerusalemme nel 586 a.C. Ma se poi
si legge con attenzione, ci si accorge che vi sono particolari discordanti
tra di loro e con i dati storici che conosciamo. Al contrario, ci sono
riferimenti troppo precisi ad avvenimenti storici di un’epoca più
recente di quella presentata come cornice ai racconti. Inoltre, il testo
di Daniele è giunto a noi in tre lingue, nella sua redazione più
completa. Il libro inizia in lingua ebraica per passare poi alla lingua
aramaica e concludere con l’ebraico. A queste due lingue va aggiunto il
greco che ci ha consegnato due racconti e una preghiera sconosciuti al
Daniele ebraico-aramaico. Come si spiega un libro scritto in tre
lingue diverse?
Tutto ciò fa sorgere la domanda: che cosa può dire
a noi un libro come questo?
Seguendo le indicazioni suggerite dai dati storici più recenti
contenuti nel libro di Daniele, si può ambientare la sua composizione
attuale all’epoca maccabaica. Sappiamo dai libri dei Maccabei quali difficoltà
abbiano dovuto affrontare gli Ebrei per mantenersi fedeli alla loro religione
sotto il dominio di Antioco IV.
Daniele si può comprendere solo se si tiene conto di questa
circostanza. Per sostenere la fede non era possibile usare un linguaggio
troppo esplicito. Era necessario parlare per enigmi, mettere in gioco personaggi
del passato, parlare di avvenimenti lontani, conosciuti attraverso qualche
tradizione popolare, che potessero però adombrare i fatti della
cronaca contemporanea. Era un raccontare in cifra, e solo chi ne conosceva
la chiave poteva comprenderne il messaggio. Le oscurità erano volute,
le ambiguità erano cercate ed erano condizione di sopravvivenza.
Prende così forma definitiva un tipo di linguaggio che si
affermerà nei decenni (e secoli) successivi agli avvenimenti che
hanno portato alla composizione di Daniele, quello che chiamiamo: linguaggio
apocalittico.
Un messaggio di speranza, anche quando sembra di aver toccato il
fondo della disperazione. Alla fine il trionfatore sul male sarà
Dio che instaurerà il suo regno nonostante l’opposizione dei suoi
nemici. Nessuna potenza umana potrà impedire la realizzazione dei
progetti di Dio sulla storia umana. Tutti i racconti del nostro libro si
concludono con il riconoscimento della grandezza di Dio anche da parte
dei suoi oppositori.
Daniele è pervaso da un ottimismo a tutta prova, pronto a
sfidare anche quelle che, dal punto di vista puramente umano, potrebbero
sembrare autentiche sconfitte del bene di fronte alle forze del male. Con
linguaggio moderno potremmo definire Daniele un pacifista, un sostenitore
della non violenza, della resistenza disarmata, un Ghandi “ante litteram”.
Ma non è un debole, perché descrive la fine dei nemici
di Dio con termini drammatici, appunto “apocalittici” secondo il significato
che il termine ha assunto nel linguaggio corrente. Solo che la punizione
dei malvagi non è operata dall’uomo, ma da Dio stesso, che interverrà
nel momento che lui solo ha stabilito.
Dopo questo intervento, i fedeli a Dio godranno una vera pace e
vedranno riconosciuti i propri diritti e meriti nel regno di “giustizia
e di pace che non avrà fine”.
Bibliografia ridotta
Benito MARCONCINI, L’apocalittica biblica, in Logos. Corso
di studi biblici. Profeti e apocalittici, vol. 3, pag. 193-244, Elle
Di Ci, Leumann 1995.
Benito MARCONCINI, Apocalittica. Origine, sviluppo, caratteristiche
di una teologia per tempi difficili, Elle Di Ci, Leumann, 1985.
Gian Franco RAVASI, Daniele e l’apocalittica, EDB, Bologna
1990.
Vedere le voci Apocalittica e Daniele nei Dizionari
biblici.
Consultare i commenti a Daniele nelle varie collane o nelle
monografie sui Profeti.
I relatori di questo seminario sono stati padre Giovanni
Boggio, il prof. Gabriele Boccaccini e si è
avuto infine un intervento del prof. Piero Stefani,
il tutto organizzato al meglio dalla vivace Presidente di
Biblia, Agnese Cini Tassinario.
I due relatori sono stati molto apprezzati sia per la loro ampia
preparazione sia per il calore partecipativo alla lettura analitica completa
del testo. Padre Boggio insegna Sacra Scrittura a Viterbo; ha vissuto a
Gerusalemme la guerra dei sei giorni, ritiene la Bibbia uno strumento di
unificazione, e ha lavorato molto con i Valdesi sull’Antico Testamento.
Il prof. Boccaccini, d’origine fiorentina, vive e lavora al Centro Studi
Giudaici presso l’Università del Michigan e crede nella conoscenza
comune dei testi.
È stata un’esperienza vivificante e trasformatrice per tutti
coloro che hanno partecipato e il discutere per ben quattro giorni interi
su questo speciale testo, ha prodotto una circolare esaltazione del pensiero
che continuava anche fuori dai “lavori”. Insomma, questi libri della Bibbia
sono dei bei pretesti per studiare e discutere assieme e far lievitare
lo spirito.
Non ho né la preparazione, né l’immodestia di parlare
ampiamente di codesto testo, ma mi piace comunque esprimere alcuni momenti,
passaggi, individuazioni morali e teologiche.
Sebbene nella tradizione rabbinica si considera questo testo non
rispondente alla tradizione biblica, si ravvede in Daniele il sapiente
ma non il Profeta, quindi si sono prese delle distanze. Ciò non
di meno il testo è pregnante di alti valori simbolici e ha causato
influenze storiche, anche in letteratura e poesia. Infatti anche Dante,
nel XIV Canto dell’Inferno riprende il tema del sogno e delle visioni di
Daniele; senza parlare delle analisi effettuate da Calvino e da Lutero
fino ai sosenitori della cosiddetta Quinta Monarchia all’epoca di Cromwell,
come ci ha raccontato Piero Stefani, relatore finale arrivato in bicicletta
da Chiusi.
Veniamo però alle visioni che Daniele interpretò per
il re Nabucodonosor. Egli è solo un tramite poiché è
l’angelo Gabriele che gli spiega le profezie.
I capitoli dall’1 al 6, dal punto di vista storico, furono scritti
e pensati prima della rivolta dei Maccabei, i quali indeboliranno il potere
dei sacerdoti, troppo esclusivi nella custodia della Torà, e riusciranno
a portare la Legge in mezzo al popolo, a tutti.
L’uso di due lingue nel testo, l’aramaico, lingua franca, e l’ebraico
è il suo aspetto più caratteristico e misterioso. C’è
da osservare che vi è nel testo un’unità strutturale con
messaggi precisi in prospettiva del Giudizio.
Quali sono questi messaggi?
Daniele, depositario delle rivelazioni divine, ma il cui potere
è di origine divina, cioè Dio lo dà e Dio lo può
togliere; la fedeltà intesa come sapienza della Legge. Daniele
mette in guardia contro il rischio dell’idolatria: l’unica rivelazione
si è compiuta solo attraverso la Legge data sul Sinai.
Nei capitoli 10 e 12 si sottolineano i passi morali, affinché
si raffermi l’idea del giudizio, della responsabilità individuale
e del primato dell’azione che ha un valore verso il Patto, quindi la fede
chiamata a identificarsi nel comportamento individuale.
Sono scaturite ovviamente molte domande, anche perché il
prof. Boccaccini, risalendo alla tradizione enochica, ha fatto delle analogie
con alcuni passaggi del testo, quale la profezia del Figlio dell’Uomo,
le varie concezioni messianiche, il concetto di male, anche come forza
che vuole distruggere l’ordine creato da Dio, ma la Torà attraverso
i suoi custodi, i Sacerdoti, cerca di riportare l’ordine e di affievolire
l’impurità attraverso le mitzwot (precetti) le quali mettono il
dito nella piaga, piaga umana anche oggi, cioè il paradosso di essere
ciò che non si è e non essere ciò che si è.
Pensare ai margini è forse la posizione e il comportamento
di chi, attratto dai libri di uno dei due canoni -ebraico e cristiano-
nel riconoscere questa attrazione si chiede “perché e che cosa”,
senza voler sostituire immediatamente alla domanda le risposte dell’una
o dell’altra tradizione (comunque non cosí imperative e indifferenziate),
volendo coglierne piuttosto il senso, cioè l’orientamento, la realtà
verso cui esse muovono e il movimento che le fa sorgere.
Siamo con il libro di Daniele, storicamente importante per le origini
del giudaismo rabbinico (centralità della Torà, responsabilità
individuale distinta da quella del popolo, attesa della resurrezione) e
del cristianesimo (il Figlio dell’uomo come incaricato di una particolare
missione storica, inteso poi come individuo celeste -non divino-, quindi
identificato con Gesù di Nazaret, la cui figura si carica di una
funzione messianica risolutiva, il cui compimento è però
spostato in un tempo della fine, non ancora sopraggiunto).
Dice lo storico, cui si deve il merito della scoperta dei vari strati
e passaggi di tradizione: non spetta a me in quanto storico mettere insieme
aspetti contradditori e conflittuali risultanti dalla documentazione interpretata
e dalle riletture messe in luce; c’è A e c’è non A, la concezione
del tempo chiuso e computabile, in cui la volontà stessa del Creatore
è catturata ed espressa nell’ordine cosmico, e c’è lo spazio
di libertà per la confessione e il ravvedimento, in grado di influire
sul futuro degli accadimenti e di mutarlo. Non spetta allo storico dire
che cosa il teologo (o l’interessato al messaggio biblico) possa trarne.
Dice l’esegeta: un conto è il senso letterale, ciò
che l’autore al suo tempo ha voluto dire, un altro il senso che può
attribuirgli un tempo o un’esperienza religiosa diversa. Non c’è
legame tra di loro, se non come relativa eventuale affinità di situazioni.
Ma l’una e l’altra risposta sfuggono il problema: che cosa
mi induce - una volta riconosciuta la complessità e la contraddizione,
come pure il sovrapporsi dei significati e il loro estendersi ad ambiti
impropri - a cercare il senso di quelle espressioni e di quei libri? Non
certo una volontà sistematica, inutile tentativo di ignorare i contrasti,
né un progetto apologetico, deciso preliminarmente a far dire al
testo solo determinate cose. Tentativi che crollerebbero su se stessi;
non può esserci né teologia come sistema di nozioni coerenti
a loro astratti principi, né ermeneutica attualizzante secondo esperienze
di vita che non appartengono agli autori.
Che forma ha dunque l'interesse del lettore (o ascoltatore) del
testo dell'uno o dell’altro canone, criticamente avvertito, ma non positivisticamente
pronto a separare i due piani dell'esperienza - quella scientifica e quella
dell'ascolto - ma anzi pronto a riconoscere - nonostante tutto- qualcosa
che dal testo biblico lo chiama, gli si rivolge, rendendolo non indifferente?
Questo "qualcosa" è indipendente dalla sua volontà
e dalla sua disposizione, perciò non può essere analizzato,
condotto cioè alla misura di un elemento accessibile, non ha la
capacità di pressione di un condizionamento, da cui non ci si libera,
perché incontrollabile; è qualcosa che posso riconoscere
- ed è libertà nel farlo - senza alcuna garanzia o controllo.
È un riconoscere “nonostante", cioè senza certezza
delle implicazioni e senza garanzia delle conseguenze, ma non senza coscienza
critica. Questa è data dall'autonomia dell’iniziativa manifesta
nel porsi delle espressioni verbali, nella non riducibilità di chi
parla in esse a semplice figura del soggetto umano che le formula e le
trasmette. Coscienza critica inerente specificamente ai testi dei canoni
biblici, indicante un essere del lettore tra gli uni e gli altri significati
storici, talvolta opposti, che il testo esprime, senza mediazione: un pensiero
ai margini, in posizione instabile e quanto mai insicura.
Ma questo è un pensare? 0 uno stato di sospensione indefinito,
più uno stato d'animo che una forma definita da relazioni nell'ambito
dei dati di riferimento reali? È un pensiero, nel senso di
un riferirsi a qualcosa senza poterlo comprendere, rappresentare, un essere
in relazione non per iniziativa del soggetto, ma in quanto ci si riconosca
nella relazione e nella domanda che questo “qualcosa” pone. Così,
ai margini della storia, ci si chiede: che cosa mi vien detto, in questo
risultato conflittuale della ricerca scientifica? E ai margini dell’esegesi:
che cosa mi risulta, dalle diverse letture e interpretazioni date al testo
nel tempo? Pensare ai margini è appunto il non potersi fermare a
una posizione, per quanto fondata, non in forza di un’ulteriore esigenza
fondativa, ma perché si è in qualche modo sollecitati a “guardare
meglio”. È una richiesta che viene da una parola/comunicazione,
che viene dai testi: non nel senso delle cose dette nei testi, ma nel senso
del “voler dire” presente negli scritti; alcuni testimoni scrivono, non
esclusivamente per esprimere una loro convinzione, ma anche per trasmettere
(quindi aderire in pieno a-) una convinzione che non ha origine soggettiva.
C’è un voler trasmettere perché si è ricevuto, perché
c’è qualcosa che va oltre l’afferrabile e il traducibile in termini
di esperienza, (perciò è motivo di attenzione e di ricerca);
questo dinamismo dello scrittore biblico è anche lo stimolo all’ascoltatore,
perché non si limiti a una dimensione del senso, come l’unica obbligatoria
e fondata, relegando le altre nell’individuale, nell’imponderabile e in
ultimo inessenziale. Non c’è una base solida, ma uno stare comunque
al limite: questo è pensiero nel senso di orientarsi in una direzione
che la parola scritta suggerisce. Qui ha senso anche l’esigenza critica
della storia, dell’esegesi, cioè nella convinzione che il testo
voglia dire qualcosa, e voglia dirlo a me. Convinzione che precede ogni
intervento scientifico, e viene da una fonte gratuita, riconoscibile storicamente
nel suo manifestarsi sotto forme di sollecitazione, di domanda; è
qualcosa di autonomo, di irriducibile alle stesse condizioni storiche.
Ma allora, lungi dall’essere ininfluente, tale “pensiero al limite”
è la vera matrice di stimoli per la ricerca e di impegno scientifico.
Essa ne costituisce il senso e la ragion d’essere, a meno della sterilità
problematica. Dall’interesse per un testo -o meglio per ciò
che in esso possa esser detto- all’esegesi e alla critica storica, senza
un punto d’arrivo definitivo, per l’offerta comunicativa che si ripropone.
L’autore di Daniele, che produce un testo ambiguo per quanto riguarda
la concezione del tempo (predeterminazione degli eventi, o libertà
delle decisioni, in grado di far tornare le decisioni divine sui loro passi),
dimostra in effetti un pensiero che non può stabilizzarsi in un
centro, in rappresentazioni coerenti, ma sta sempre al limite delle posizioni,
nella necessità di relativizzarle. I seguaci di Gesú, che
trovano in Daniele suggestioni per la loro esperienza, ne assumono il senso,
cioè la direzione del tempo verso una fine, ma si chiedono come
questa funzione di compimento possa essere attuata da un messia umano,
che non abbia un mandato del tutto speciale, una relazione unica con il
suo Signore.
Non abbiamo, accanto alle analisi critiche, verità teologiche
come risposte sicure ai problemi interpretativi, ma un pensiero come relazione
in atto, tentativo di lasciarsi coinvolgere nel movimento comunicativo
che attraversa le parole dei testi e risveglia l’interesse degli ascoltatori,
unica fonte dell’adesione personale e della problematica critica.