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La “giustizia” non è una nozione astratta ma piuttosto consiste nel fare ciò che giusto e retto nelle relazioni. […] La giustizia richiede non semplice astensione dal male, ma un costante atteggiamento volto a perseguire la giustizia attraverso la messa in atto di scelte positive. Antitetico al concetto di giustizia è quello di malvagità (s[ eda4qa4h– ris](a4h). Il fallimento nell’adempiere agli obblighi di giustizia conduce indirettamente al rovesciamento della stabilità sociale e, in ultima analisi, al minare deliberatamente la struttura sociale stessa. [1]
Forse poche radici hanno più connotazioni “relazionali” della radice semitica s@dq. Nell’aramaico antico e in fenicio la radice connota la fedeltà di un re o di un sacerdote al suo Dio oppure di un vassallo o di un suddito al suo re. Nell’ebraico biblico la radice connota la fedeltà alla relazione con Dio e alla relazione con la comunità oppure la condizione stessa di relazioni ottimali all’interno della comunità. Il riferimento alla norma scaturisce da questa fedeltà (si tratta dell’espressione normativa di quelle condizioni che permettono la giusta relazione o il ristabilimento di questa quando si rompessero le giuste relazioni con Dio o tra membri della comunità)[2]. Si comprende allora la definizione data sopra e il perché nell’ebraico biblico il negativo di giustizia non sia ingiustizia ma male – malvagità.
La verifica di una tale affermazione è particolarmente fruttuosa se prendiamo in considerazione alcuni brani tratti dal primo libro della Bibbia in cui questa radice è utilizzata – dato il valore antropologicamente e teologicamente fondativo di un tale testo, almeno per coloro che vi si riconoscono nell’adesione di fede o di appartenenza.
In Genesi (mi si conceda, per motivi di pura convenzione, di utilizzare la titolazione dei libri biblici secondo la tradizione cristiana occidentale) questa radice è presente in relativamente pochi contesti e per questo mi pare di particolare rilevanza, dato il forte valore simbolico ed evocativo che suscita la s[ eda4qa4h nel lettore biblico (come non ricordare gli appelli alla giustizia di tutto il mondo profetico e tutti i riferimenti al giusto e alla giustizia delle preghiere dei Salmi?).
1.1.
Noè il giusto e un’umanità di fratelli
Io chiederò certamente conto del sangue delle vostre vite; ne chiederò conto ad ogni animale e all’uomo. Chiederò conto della vita dell’uomo alla mano di ogni suo fratello. Chiunque spargerà il sangue di un uomo, il suo sangue sarà sparso per mezzo di un uomo, perché il Signore ha fatto l’uomo a sua immagine. Voi dunque siate fruttiferi e moltiplicatevi; crescete grandemente sulla terra e moltiplicate in essa. [Gen 9, 1-5]
Dopo Noè gli uomini vengono definiti fratelli [3]! E questo non come appartenenti ad un unicopopolo, ma come discendenti di Noè! La benedizione biblica della moltiplicazione umana sulla terra è tradotta dal racconto biblico attraverso le tavole dei popoli (di tutta la terra!) visti come discendenti di Noè (cf. Questa è la discendenza dei figli di Noè: Sem, Cam e Jafet; nacquero dei figli ad essi dopo il diluvio: Gen 10,1[4])
È in questo orizzonte che si può leggere il patto-alleanza che Dio stipula con Noè:
Poi Dio disse a Noè e ai suoi figli: «Quanto a me, ecco che io stabilisco la mia alleanza con voi e con la vostra progenie dopo di voi, e con ogni essere vivente che è con voi: con i volatili, con il bestiame e con tutte le fiere della terra che sono con voi, da tutti gli animali che sono usciti dall’arca a tutte le fiere della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi, che non sarà più distrutta alcuna carne a causa delle acque del diluvio, né più verrà il diluvio a sconvolgere la terra». Poi Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future: io depongo il mio arco nelle nubi, ed esso sarà un segno di alleanza fra me e la terra. E quando io accumulerò le nubi sopra la terra e apparirà l’arco nelle nubi, allora mi ricorderò della mia alleanza che sussiste tra me e voi ed ogni anima vivente in qualsiasi carne e le acque non diverranno mai più un diluvio per distruggere ogni carne. L’arco apparirà nelle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni anima vivente in ogni carne che vi è sulla terra». Poi Dio disse a Noè: «Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che vi è sulla terra». [Gen 9, 8-17]
La verità “rivelata” [lo svelamento del volto di Dio] del racconto di Gen 6-9 è che non esiste alcun Dio inviatore di diluvi! Dio ha originariamente promesso di non distruggere alcuna vita nella carne (kol nefes] - kol ba4s8a4r) sulla terra, indipendentemente dalla malvagità o meno di essa! Non esiste in cielo alcun Dio-punitore, alcun Odino, in qualunque forma di immaginario religioso dovesse emergere dalla nostra proiezione umana! Non è difficile reperire il “fossile simbolico” sottostante il testo:
La raffigurazione dell’arciere divino, che dalla sua dimore invisibile scaglia la sventura contro gli uomini, nasce da un’antichissima personificazione delle forze della natura, secondo la quale il dio della tempesta imbracciava l’arco per scagliare a terra non solo i fulmini, ma anche l’acqua e la gradine, nonché le malattie tipicamente invernali: era questo per esempio il caso del dio cananaico reshef [=freccia], nome delle epidemie e del contagio [n.b. nell’ebraico biblico il termine reshef indica sia la ‘febbre’ che il ‘guizzo’ dei fulmini: cf. Dt 32, 23-24; Sal 76,4; 78,48]. Interessante qaws quzach, divinità preislamica della bufera, che scagliava la grandine con il proprio arco, per poi appenderlo alle nuvole e dar così luogo all’arcobaleno. [5]
Così, se anche fosse esistito un Dio così, il Dio biblico non lo è (più) per l’eternità; e questo è stato possibile grazie ad una giustizia [giusta relazione] riconosciuta come tale agli occhi di Dio!
A livello originario la società che ne scaturisce è un’armonia “necessaria” tra gli uomini (padre-figli e famiglie à le relazioni dei discendenti hanno questo ceppo!) e tra gli uomini e il creato (grazie alla giustizia di Noè si salvano anche gli animali “a coppie”). Si potrebbe riflettere a lungo sulla prospettiva interpretativa dell’umanità che un tale testo fondazionale propone (non è ancora stata stipulata alcuna alleanza specifica con un popolo particolare tra gli altri e non è ancora subentrata alcuna forma di “fede” particolare: è la riflessione dell’uomo biblico/rivelazione del Dio biblico sull’umanità in quanto tale ad essere in gioco qui!). Se dovessimo infatti riflettere sulla nostra visione “fondativa” dell’umanità e della relazione con l’ambiente nel quale questa umanità si trova a vivere, non sono sicuro che avremmo in mente questo sfondo comune!
Certamente dopo il diluvio l’umanità è tragicamente aperta a nuove e profonde fratture e rotture relazionali: tra l’uomo e il suo “ambiente” (Gen 9,3 permette la dieta carnivora, vietata in 1, 26-30), tra padri e figli (Gen 9, 18-27 l’episodio di Cam e Noè, con la maledizione di Canaan, uno dei suoi discendenti e la benedizione di Sem e Jafet), tra uomini e Dio (Gen 11 e la Torre di Babele). Tuttavia è sullo sfondo dell’alleanza noaica che ora il nuovo progetto di umanità e di giustizia umana si delinea con maggiore chiarezza[6].
1.2.
Abramo e la città di Sodoma: l’ingiustizia di un comportamento sociale
autoreferenziale
Come Noè, il giusto Abramo (cf. Gen 15,6: Egli credette al Signore che glielo accreditò a giustizia) diventa criterio per una possibile salvezza del malvagio. Tuttavia la differenza è duplice. Mentre Noè è all’interno di quell’umanità malvagia e si salva per dare in sé stesso continuità a tale umanità, Abramo non è uno degli abitanti si Sodoma, ma, dall’esterno, si rende protagonista di una contrattazione con Dio per salvare altri, alla ricerca di un numero di giusti che possano permettere la non-distruzione della città di Sodoma. Conosciamo tutti il contesto:
Anche qui le domande che potrebbero rimbalzare sulla visione di società che emerge si farebbero stringenti. L’autoreferenzialità dei comportamenti di un gruppo, di una città, di una nazione (potremmo dire oggi), anche se compiuti da tutti gli uomini di tale gruppo, nel momento in cui si svolgono all’interno di una rottura delle relazioni a livelli più ampi potrebbero mai essere qualificati come giustizia? Non mi pare una domanda di poco conto per proiettare alcune affermazioni che udiamo ormai quotidianamente sull’orizzonte di possibili piste di soluzione giuste anche al giorno d’oggi. Del resto questa consapevolezza non è che destinata ad alimentarsi, come auspicano in diversi nell’analisi del mondo contemporaneo:
Over
the past decade, there has been an increased understanding of the appropriate
level – local, national, or global – at which collective action is desirable.
Actions the benefits of which accrue largely locally should be conducted
at the local level; while those that benefit the citizens of an entire
country should be undertaken at the national level. Globalization has meant
that there is an increasing recognition of arenas where impacts are global.
It is in these arenas where global collective action is required – and
systems of global governance are essentials. […] Globalization, by increasing
the interdependence among the people of the world, has enhanced the need
for global action and the importance of global public goods. [7]
We
all share a single planet. We are a global community, and like all communities
have to follow some rules so that we can live together. These rules must
be – and must be seen to be – fair and just, must pay due attention to
the poor as well as the powerful, must reflect a basic sense of decency
and social justice. In today’s world, those rules have to be arrived at
through democratic processes; the rules under which the governing bodies
and authorities work must ensure that they will heed and respond to the
desires and needs of all those affected by policies and decisions made
in distant places. [8]
Anche gli studi dell’economista Amartya K. Sen (premio Nobel per l’economia nel 1998) portano, anche se non partendo dalla riflessione a riguardo della globalizzazione, allo stesso genere di conclusioni. All’interno della riflessione sulle identità e sulle disuguaglianze dei diversi gruppi umani, arriva recentemente a scrivere:
Apparteniamo a molti gruppi differenti, e dobbiamo scegliere un ordine di priorità. Sebbene la forza, che si suppone irresistibile, delle identità campanilistiche – di una setta o di una comunità o persino di una nazione – possa essere evocata per costringerci alla rassegnazione, dobbiamo resistere alla minaccia della frammentazione.
Secondo, spetta a noi decidere quale importanza attribuire alle identità comunitarie, e la scelta non ci può essere sottratta sulla base di qualche impenetrabile barriera, o dell’ingiustificata credenza di un ordine di priorità già determinato.
Terzo, il mondo non è solo un insieme di nazioni ma di persone, e le relazioni tra individui non devono necessariamente essere mediate dai rispettivi governi. Questo può essere molto importante nel mondo precario e insicuro in cui viviamo, all’ombra minacciosa di attentati, missili e bombe atomiche.
Quarto, la giustizia internazionale non esaurisce le istanze della giustizia globale. Le nostre interrelazioni globali sono di gran lunga più estese delle relazioni internazionali. Le istanze di equità, impegno etico e responsabilità devono essere collocate in una prospettiva adeguatamente ampia.
Dunque, le implicazioni della pluralità delle identità e del ruolo della razionalità e della scelta sono enormi. Hanno rilevanti conseguenze dirette per un’ampia varietà di temi di importanza cruciale, che variano dalla sicurezza all’equità. Non possiamo nascondere i problemi e le scelte che dobbiamo affrontare dietro lo schermo della presunta impossibilità di comprensione reciproca (che si suppone dovuta alle impenetrabili barriere della cultura). Né possiamo liberarcene per mezzo di una qualche implausibile trasformazione del dominio della ragione in quello della scoperta passiva. Dobbiamo assumere su di noi la responsabilità delle vite che conduciamo, e anche del mondo in cui viviamo. [9]
1.3. Giacobbe e Labano: il confine da non oltrepassare
Credo tutti conosciamo la storia di Giacobbe che, fuggito dalla casa paterna, va a vivere con lo zio Labano. Innamoratosi della cugina Rachele e dopo aver lavorato sette anni per sposarla, si ritrova vittima della beffa dello zio che, la prima notte di nozze, gli fa sposare la sorella di Rachele, Lia. Così Giacobbe lavorerà altri sette anni per poter sposare l’amata. Da queste due mogli e dalle loro serve Giacobbe avrà i dodici figli, capostipiti delle dodici tribù bibliche di Israele. Ebbene, nella relazione salariale tra Giacobbe e Labano troviamo l’unica affermazione sulla giustizia di tutta la vicenda:
E qui il racconto ha una svolta inattesa. Labano raggiunge Giacobbe e si verifica un chiarimento delle posizioni che … non chiarisce nulla! Ognuno dei due uomini rimane convinto assertore delle proprie posizioni eppure assistiamo ad una risoluzione del conflitto che non avviene attraverso la categoria del “più forte” o di colui che ha “più ragione”, ma va nella direzione della giustizia intesa come giuste relazioni possibili. Al di là delle forme concrete con cui questa si attua, assistiamo ad un’alleanza (v.44: nikr eta4hb er|=t )an|= w e)atta4h) tra Giacobbe e Labano.
Le relazioni si ricompongono, mettendo in gioco le proprie vite, attraverso un impegno reciproco:
Gen 31, 52-53: Ecco questo mucchio [di pietre] ed ecco questa stele sacra che ho eretta tra me e te. Questo mucchio è testimone e questa stele sacra è testimone che io giuro di non oltrepassare questo mucchio dalla tua parte e che tu giuri di non oltrepassare questo mucchio e questa stele dalla mia parte, per fare del male. Il Dio di Abramo e il Dio di Nacor siano giudici tra noi.
Bisogna fare due considerazioni:
- non c’è in gioco alcun perdono!!! Non bisogna pensare alla risoluzione dei conflitti e al ristabilirsi della relazione sempre e solo in termini di percorso morale individuale: occorrono tante volte passi di reciprocità che coinvolgano un percorso comune, nell’incontro su un confine, forse per stabilire di non oltrepassarlo per farsi del male !!! Quanto potrebbe essere importante un simile approccio nella prospettiva della mediazione nella risoluzione di conflitti anche contemporanei, specialmente quando le ferite non paiono psicologicamente risanabili (laddove cioè non è realisticamente umana la prospettiva di un perdono sociale delle parti)
- non si tratta di dare o avere ragione!!! C’è semplicemente la consapevolezza e l’accettazione dell’esistenza e della posizione dell’altro. Non c’è più alcun tentativo di ricondurre l’altro a sé. Ci si accetta e ci si rispetta nella propria alterità e diversità. Anche da questa angolazione credo che la meditazione di questo brano possa aiutare molte dinamiche sociali e internazionali.
Assistiamo in questo brano alla possibilità di unagiustizia-giusta relazione (contrattuale) che si proietta nella capacità di una ricomposizione nella prospettiva “politica” diremmo oggi che permette il massimo comun bene nella ricostituzione della pace. Anche questo brano si proietta sui fondamenti di un vivere comune che molto avrebbe da dire sulle nostre relazioni di giustizia odierne! [12]
2.
Tale concetto di s@dq
– giustizia ci può aiutare nel cammino dall’ideale
alla realtà?
La prospettiva di una giustizia concepita non tanto come equa distribuzione di beni e di possibilità sociali, né come adeguazione dei comportamenti ad una norma, ma come capacità di vivere giuste relazioni riesce veramente a fornire un orizzonte ideale verso il quale compiere passi concreti nel vissuto umano?
Credo di si, soprattutto nelle tre direttrici che abbiamo sottolineato:
· un mondo di uomini/donne – fratelli/sorelle originati da un giusto e chiamati a vivere insieme in un ambiente comune [tema dell’uguaglianza fondamentale di tutti];
· una necessità di configurare la giustizia non come una ricerca autoreferenziale di una comunità specifica, ma nella prospettiva di aprirsi ad una giustizia capace di essere comunicabile ad altri e capace di entrare in relazione con le altre comunità [tema della dignità umana della persona (né solo individuo, né sola comunità) come principio pratico metaculturale per costruire giuste relazioni];
· una capacità di avere giuste relazioni in ordine all’accettazione della diversità e dell’alterità dell’altro per una convivenza che non oltrepassi i comuni confini per fargli del male [tema del la diversità e del pluralismo culturale e religioso e della possibile convivenza di tutti in un unico ambiente-terra].
È evidente che lo scacco di una possibile giustizia viene drammaticamente percepito nel momento della rottura radicale della relazione giusta che aveva sostenuto fino a quel momento la convivenza delle parti, vuoi a livello dei rapporti intra-soggettivi, vuoi a livello dei rapporti tra soggetti e società, vuoi tra interi corpi sociali. Eppure lo stesso orizzonte che abbiamo accennato, più in forma di “icona biblica” che di trattazione sistematica può permettere un’ulteriore riflessione. Nell’elemento originario di un conflitto infatti, quella che viene bruscamente interrotta non è tanto o solo la simmetria distributiva o la simmetria tra l’azione compiuta e un tessuto legale, ma la giusta relazione tra le parti. Così, come scrive Pietro Bovati,
Volendo esplicitare la natura e il senso del r|=b[13], possiamo fornire la seguente descrizione: all’inizio vi è uno stadio di relativo accordo fra due parti, una situazione di intesa pacifica; si verifica in seguito un episodio che turba questo rapporto, perché mette in questione un elemento sul quale l’intesa fra i due era (esplicitamente o implicitamente) fondata. Si tratta attraverso il r|=b di riannodare tale rapporto e fondare un accordo di pace che strutturerà in modo nuovo le relazioni fra i soggetti. [14]
È nota la relazione esistente tra giustizia e pace: l’ingiustizia è proprio ciò che scatena l’azione giuridica dell’accusatore, e solo il ristabilimento di giuste relazioni può portare la pace tra le persone. [15]
Ora, mi sembra di poter affermare che nella prospettiva di (ri)-creare giuste relazioni, di cercare quindi la giustizia, solamente dalla capacità di tenere in tensione critica le nostre tre direttrici (quattro se si tiene insieme anche la suggestione fornita dall’episodio di Giuda e Tamar, che pone il bene della relazione comunitaria come il vero fine della norma legale secondo la prospettiva della legge al servizio delle relazioni e non viceversa[16]) si rende possibile l’elaborazione di una criteriologia applicativa di questi principi. Se infatti si smarrisce per strada qualche polo di queste direttrici non risulta più possibile alcun dialogo reciproco fra le parti. Infatti:
· da una visione che tende ad enfatizzare un’uguaglianza a-critica, non nasce ipso facto la capacità dell’accettazione della diversità (l’altro come diverso-da-me);
· da una visione che parcellizza l’esperienza umana in una proclamazione del localismo o del soggettivismo etico o culturale come unico criterio di riferimento, non nasce la capacità di uscire dall’autoreferenzialità culturale per incamminarsi su terreni di collaborazione in vista di fini comuni (l’altro come in-comunione-con-me);
· da una visione che enfatizza solo il dato solidaristico delle relazioni umane secondo l’unica direttrice dal ricco al povero, non si esce dalla visione paternalistica cui abbiamo drammaticamente assistito negli anni del post-colonialismo del XX secolo[17] e diviene impossibile la profonda convinzione della radicale uguaglianza tra gli uomini (l’altro come uguale-a-me)
Non è un caso, poi,che è su queste tre direttrici che si muove la maggior parte delle riflessioni riguardo ad una possibile convivenza mondiale, sia all’interno dei diversi sistemi comunitari, sia tra di essi nel processo di “mondializzazione” globalizzata di cui siamo testimoni e protagonisti, indipendentemente dalle varie valutazioni possibili di ciascuno di noi su di esso. Sarebbe lunga la lista dei volumi e degli articoli che si potrebbero qui citare, per cui non mi ci soffermo[18], credo comunque non sia difficile scorgere in queste piste possibili orizzonti di riferimento per considerazioni più vaste sulle vie da seguire nell’elaborazione di progetti di convivenza umana.
Credo altresì che una prospettiva di questo genere, solo apparentemente vaga e generica, possa anche essere particolarmente fruttuosa nel caso della rottura delle relazioni. Nel caso cioè in cui una parte decide deliberatamente di superare il “confine” reciproco per “fare del male”.
Se infatti il motore che muove la ricerca di soluzioni è quello della “vendetta” o della “violenza reciproca”, oppure della “punizione” esemplare o addirittura preventiva (come sostenuto molto recentemente da alcuni) non c’è dubbio che al centro c’è unicamente la difesa e la tutela del proprio “io”, della propria identità individuale o “sociale-comunitaria”. Ne nasceranno inevitabilmente logiche nelle quali diventano coerenti e possibili (se non auspicabili) strumenti linguistici quali “pena di morte” – “guerra giusta o santa” ecc.
Mettere al centro realmente e realisticamente la relazione come bene sommo della vita umana, passare cioè da un sentire solipsista della visione metafisica o cripto-metafisica dell’esistenza ad un sentire nel quale la relazione diviene centrale nella stessa percezione del proprio io (serve ricordare un celebre titolo di Paul Ricoeur: Soi-même comme un autre[19]?), permette anche, a mio modesto modo di vedere, di partecipare ad una ricerca di convivenza che, nella estrema fragilità del momento attuale, va sempre più ribadita.
Momenti di dialogo e di incontro quale questo di oggi vanno senz’altro in questa direzione: come sarebbe possibile sennò essere qui oggi?
3.
Una conclusione: camminare augurandosi la possibilità di giuste
relazioni
Vorrei concludere questo mio intervento con una citazione, tratta dalle ultime pagine dall’ultimo recentissimo scritto di Carlo Maria Martini, che mi pare poter essere, oltre che una considerazione condivisibile, anche un augurio reciproco:
Dinnanzi alle sfide del mondo contemporaneo, il compito di servire Dio “spalla a spalla” (Sof 3,9)[20], lavorando insieme per la giustizia e la pace, costituisce un’opera di proporzioni immense. Si tratta infatti di collaborare con Dio da uomini liberi. […] La pienezza di senso religioso e umano che la parola “pace” ha nella tradizione sia musulmana (salam) sia ebraica (shalom) … che fanno dell’augurio di pace l’espressione quotidiana di saluto tra i fratelli di fede. […] L’avventura umana nel mondo e persino la mirabile sinfonia del cosmo possono essere descritte nell’immagine di un incessante cammino, di una tensione perenne, di un pellegrinaggio sacro dell’uomo e del cosmo in ascesa verso la perfezione del bello e del santo, del giusto e del vero.[…] Questo pellegrinaggio personale, storico e cosmico, si svolge sul crinale di due opposti abissi, librandosi tra essi sostenuto dal tenue filo d’argento della libertà. Da una parte c’è il bagliore, inestinguibile e accecante della luce pura e ardente che supera ogni parola umana; dall’altra, invece c’è la tenebra dell’errore, della volontà di potenza che può giungere a servirsi della verità più sacra per giustificare ogni violenza. […] I libri più sacri, nelle nostre, ma pure in altre tradizioni religiose, sono stati non di rado oggetto di ingiustificata distruzione o, all’opposto, sono stati strumentalizzati contro la loro natura e usati per giustificare azioni di persecuzioni e di violenza, contrarie alla dignità e alla libertà della persona umana. Infine, il dialogo può diventare l’anticamera di una spietata condanna inquisitoria, della censura e della scomunica reciproche. Questo cammino ci vede dunque solidali con tutta l’umanità: non solo con gli uomini a noi contemporanei, ma con gli uomini delle epoche che ci hanno preceduto e che seguiranno. [21]
Così vorrei anch’io permettermi di augurare ad ognuno di noi, nei propri contesti di fede, di lavoro sociale, di relazioni interpersonali, la realizzazione dello sguardo sulla realtà del Salmo 85[22], facendo percorrere a queste dolci immagini il cammino dall’ideale alla realtà:
Misericordia
e Verità si incontreranno
Giustizia
e Pace si baceranno
La
verità germoglierà dalla terra
e
la giustizia si affaccerà dal cielo.
Anche
Dio concederà tutto ciò che è buono,
e
la nostra terra darà i suoi frutti.
La
giustizia davanti a lui camminerà
tracciando il sentiero con i suoi passi
Roma
Campidoglio 27/10/2002