APPROFONDIMENTI CULTURALI - XXXV

 

- Dal Notiziario semestrale n.1 - Gennaio 2005 - ANNO XIX, N.1 -

 

James Charlesworth

Data la sua rilevanza per la comprensione della figura di Gesù, anticipiamo parte della relazione svolta da James H. Charlesworth  al convegno internazionale Il Messia fra memoria e attesa, Venezia 4-6 luglio 2003. La versione completa assieme a tutte le altre relazioni usciranno negli Atti curati da Gabriele Boccaccini di imminente pubblicazione presso l’editrice Morcelliana di Brescia.

 

IL FIGLIO DELL’UOMO,

IL PRIMO GIUDAISMO, GESÙ,

E LA CRISTOLOGIA PRIMITIVA

 

Gesù pensò di sé come il Figlio dell’Uomo? O forse, se Gesù usò questa espressione come un titolo, fece riferimento alla venuta di un’altra figura o di un’altra persona? I quattro evangelisti attribuirono a torto questo titolo a Gesù a Nazareth? È il Figlio dell’Uomo semplicemente una circonlocuzione dell’aramaico precedente al 70 indicante la prima persona singolare, cioè, l’espressione «figlio dell’uomo» funziona come un sostituto per l’io? È il Figlio dell’Uomo un termine che sempre si riferisce all’uomo? Il Figlio dell’Uomo indica e simbolizza la condizione umana dell’essere sperduti e non trovare il proprio luogo sulla terra? Poiché l’aramaico bar enosh (o simile) è un’espressione filologicamente imprecisa che può essere tradotta non solo come ‘il Figlio dell’Uomo’ ma anche come ‘un figlio d’uomo’, come possiamo sapere ciò che il singolo autore intendeva? Quale prova filologica o testuale può aiutare lo studioso a comprendere quando l’espressione è divenuta un terminus technicus e quindi un titolo?

 

Fino al ventesimo secolo la maggior parte degli studiosi del Nuovo Testamento accettava come un dato di fatto che gli autori dei vangeli neotestamentari avessero riportato fedelmente e senza distorsioni l’uso gesuano del Figlio dell’Uomo. Secondo questa visione gli evangelisti avevano trasmesso l’uso che Gesù stesso aveva fatto dell’espressione: un titolo usato per rivelare la propria identità. Nell’uso del Figlio dell’Uomo, i teologi neotestamentari vedevano riflessa l’autocoscienza divina di Gesù.

 

Oggi, non possiamo più ripetere gli errori del passato. Gli evangelisti non furono dei compilatori passivi delle tradizioni di Gesù; ma redattori che creativamente trasmisero ciò che si ricordava di quello che Gesù aveva detto e fatto.

 

Introduzione

 

La maggior parte degli studiosi del Nuovo Testamento riconoscono che il problema più complesso e apparentemente impossibile da risolvere è il seguente: Gesù usò mai il termine ‘Figlio dell’Uomo’, e se è così, che cosa queste parole volevano dire per lui? Erano un titolo, una parafrasi per l’io, o si riferivano a qualcun altro come Figlio dell’Uomo? In che misura il greco è una traduzione approssimativa o finanche fuorviante dell’originale espressione aramaica?

 

Alcuni specialisti replicheranno a tale raffica di domande che i frutti di anni di intensa ricerca scientifica sul tempo di Gesù si manifestano nel semplice fatto che tali significative domande siano oggi poste. Davvero, essi sono certamente nel giusto nel sottolineare come la conoscenza è spesso in primo luogo un modo di formulare più sottili domande. Più impariamo, più questioni ci poniamo. Ma questi non sono più gli interrogativi della gioventù, ma le domande penetranti della maturità.

 

Molti studiosi si accostano al Nuovo Testamento per trovare nella vita e negli insegnamenti di Gesù qualcosa che sia ammirevole e paradigmatico per il loro tempo. Questo è uno scopo nobile, ma spesso sono le conclusioni a guidare la ricerca e a determinare i risultati; in altre parole, ciò che si cerca è trovato o imposto sui testi. Tale genere di studiosi non ha mai vissuto in Israele o Palestina, e conosce poco del giudaismo e dell’archeologia dell’epoca erodiana.

 

Vi sono tuttavia alcuni specialisti - ebrei, cattolici e protestanti - che sono impegnati in un’onesta ricerca storica basata su criteri scientifici. Essi spesso visitano Israele e la Palestina, sono interessati al primo giudaismo per la sofisticata teologia sviluppata in raccolte come gli apocrifi e gli pseudepigrafi e i manoscritti del Mar Morto. Concentrano il loro interesse sulla ricerca del Gesù storico, che è la ricerca scientifica delle domande storiche circa la vita e i detti dell’uomo che cominciò la sua vita e la sua missione con Giovanni il Battista.

 

Molti specialisti del Gesù storico si sono fatti scettici. Le domande relative a Gesù e ai detti evangelici sul Figlio dell’Uomo hanno portato molti di loro a una dichiarazione di fallimento circa la possibilità di conoscere se Gesù abbia mai usato ‘il titolo’ Figlio dell’Uomo e quale reazione egli possa avere incontrato. […]

 

Cercherò di evitare idiosincrasie e di puntare su una visione generale che mostri quanto attuale sia affrontare di nuovo questo tema cruciale, e forse centrale, della ricerca sul Gesù storico; dopo tutto non solo viene a toccare il problema delle origini della cristologia ma ci conduce sul terreno nel quale possiamo trovare l’auto-comprensione (e forse l’autocoscienza) di Gesù. Sempre più studiosi mettono in discussione le basi e le ragioni di un lungo consenso che Gesù non aveva alcuna coscienza messianica e non si era immaginato di essere in qualche modo il Figlio di Dio o il Figlio dell’Uomo.

 

È improprio per una storico e un filologo domandarsi: «Che cosa Gesù pensava di se stesso?» «Qual era la sua autocoscienza?» «Non aveva egli alcuna comprensione di se stesso?» «Se egli davvero ebbe una idea precisa della sua identità e del suo ruolo nell’economia della salvezza, possiamo allora definire questa sua coscienza o comprensione di sé?». Quegli storici che cercano o hanno cercato di rimanere oggettivi e di evitare distorsioni teologiche, ironicamente hanno finito per presentare un Gesù del tutto fuori dell’ordinario: egli fu l’unico essere umano a non aver autocoscienza e autocomprensione. Ciò è incredibile quando si pensi che gli stessi identici studiosi giustamente concludono che Gesù chiaramente compì degli atti eccezionali che furono salutati come miracoli. Come poteva Gesù compiere tali atti senza mai interrogarsi sulla propria identità? Lasciamo da parte il dilemma nelle menti degli studiosi moderni per concentrarci invece su ciò passava per la mente a quegli ebrei che conobbero Gesù quando viveva in Palestina.

 

Quali idee vennero alla mente di coloro che scelsero di seguire Gesù? I primi discepoli di Gesù che vivevano a Gerusalemme – e prima della comparsa di Paolo – certamente proclamarono che Gesù era il Messia e che era il Figlio dell’Uomo; questa conclusione è praticamente inconfutabile. Tuttavia, piuttosto che essere un punto di arrivo, come una volta si riteneva, questo fatto è solo la cornice dell’intera ricerca. I primi discepoli di Gesù crearono tali idee e concetti, o li ereditarono da tradizioni autentiche che risalgono direttamente a Gesù? L’autocomprensione di Gesù costituisce il fondamento e il supporto delle prime espressioni di fede in lui (kerygmata)?

 

Gesù si riferì esplicitamente a se stesso come al Figlio dell’Uomo?

 

La visione tradizionale. Per secoli gli studiosi hanno impiegato lo stesso metodo usato oggi dalla maggior parte dei lettori del Nuovo Testamento. La domanda che abbiamo evidenziata non si poneva, perché gli evangelisti semplicemente avrebbero riferito ciò che Gesù aveva detto. Due testi erano presentati come prova. Secondo Marco, il sommo sacerdote si alzò durante il processo a Gesù e gli chiese: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto» (Mc 14,61). La risposta di Gesù è così chiara che il sommo sacerdote si strappa le vesti e dichiara che Gesù è colpevole di bestemmia. Che cosa aveva detto Gesù secondo Marco? Gesù disse: «Io sono. E voi vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza e venire dalle nubi del cielo» (Mc 14,62). Il passo sembrava provare che Gesù usò l’espressione Figlio dell’Uomo, che queste parole erano un titolo, e che egli si riferiva alla sua natura superumana.

 

Il secondo testo comunemente presentato come prova si trova nel Vangelo di Giovanni. Uno degli elementi narrativi della storia del cieco nato che fu guarito da Gesù è la progressione con la quale egli arriva a comprendere l’identità di Gesù. Alla fine, molto dopo aver riacquistato la vista, l’uomo diviene anche capace di comprendere. Così Gesù gli domanda: «Credi tu nel Figlio dell’Uomo?» (Gv 9,35). L’uomo replica: «E chi è, così che io possa credere in lui?» (Gv 9,36). Gesù rivela la sua identità: «Tu lo hai visto ed è colui che ti parla» (Gv 9,37).

 

Per coloro che leggono il Nuovo Testamento così come se fosse il quotidiano del mattino, ci sono pochi interrogativi. I profeti dell’Antico Testamento videro e proclamarono la venuta di Gesù, e Gesù comprese se stesso come il Figlio dell’Uomo, vale a dire, il Messia, il Figlio di Dio.

 

Un approccio più sofisticato. Per coloro che credono che Marco, Giovanni, Luca e Matteo registrarono e preservarono sempre accuratamente e senza modifiche i detti di Gesù, viene come un forte shock apprendere che Matteo, che dipende da Marco, cambiò ciò che secondo Marco Gesù aveva detto. Marco afferma che Gesù disse: «In verità, vi dico, ci sono alcuni qui presenti che non faranno esperienza della morte finché non vedranno il regno di Dio venire con potenza» (Mc 9,1). Matteo conosce queste parole ma le modifica: «In verità, ci sono alcuni qui presenti che non faranno esperienza della morte finché non vedranno il Figlio dell’Uomo venire nel suo regno» (Mt 16,28).

 

Le parole di Matteo 16,28 e Marco 9,1 sono così identiche in greco che è certo che l’uno le riprese dall’altro, e quasi tutti gli studiosi neotestamentari concludono che fu Matteo a conoscere e usare un testo simile a quello che oggi chiamiamo Marco. Matteo ha modificato le parole di Gesù. Questo è sorprendente per molti lettori. Ma per noi la modifica è ancora più significativa. Matteo espanse ciò che Gesù forse disse ed inserì all’interno della tradizione che aveva ricevuto da Marco un termine o titolo: aggiunse il riferimento di Gesù al Figlio dell’Uomo. Se è indubitabile che qui il termine Figlio dell’Uomo fu aggiunto alle parole di Gesù, perché non dovremmo pensare che questa fu sempre la regola?

 

La maggior parte degli studiosi del Nuovo Testamento oggi evitano l’errore di presumere che gli evangelisti semplicemente ed accuratamente riportarono ciò che Gesù aveva detto in Galilea o in Giudea. Nessun serio studioso si immagina che le parole di Gesù furono registrate da uno scriba o che coloro che le udirono avessero qualcosa come un registratore o una videocamera. C’è una distanza considerevole tra Gesù e gli evangelisti, nessuno dei quali fu uno dei dodici discepoli di Gesù. L’ultimo presupposto ad essersi rivelato come fallace è la tendenza a sostenere che il quarto evangelista fu nessun altro che Giovanni figlio di Zebedeo. Egli non assomiglia neppure lontanamente al discepolo che Gesù amava, come ho scoperto e quindi argomentato nel mio libro The Beloved Disciple.

 

Porsi questioni reali. Ancora una volta, dovremmo costantemente sforzarci di usare la corretta metodologia scientifica e non ridurci ad affermare ciò che speravamo di trovare. La questione può essere messa a fuoco: qual è l’origine dei detti e della cristologia sul Figlio dell’Uomo? Il titolo Figlio dell’Uomo emerse per la prima volta nella storia come fenomeno post-pasquale tra i membri del movimento palestinese di Gesù (una volta anacronisticamente definito come la Chiesa primitiva)? A questo punto dovremo procedere affrontando una serie coerente di quattro domande:

  • Gesù si riferì chiaramente a se stesso come al Figlio dell’Uomo? 

  • Cosa significa Figlio dell’Uomo nell’Antico Testamento, nel primo giudaismo e nei vangeli?

  • Su quali testi dovremmo decisamente puntare la nostra attenzione? 

  • É possibile ipotizzare una nuova prospettiva?

Qual è stato finora il consenso circa i detti sul Figlio dell’Uomo nelle parole di Gesù?

La più importante e influente opera di teologia del Nuovo Testamento è la Theologie des Neuen Testaments di Rudolph Bultmann. In questo capolavoro in due volumi, per più di una generazione Bultmann definì i criteri di interpretazione dei detti sul Figlio dell’Uomo attribuiti a Gesù. Bultmann raccolse questi detti in tre categorie.

 (a) I detti sul Figlio dell’Uomo che si riferiscono alla sua azione nel presente, secondo Bultmann, dovevano essere visti come una erronea interpretazione del traduttore greco. Questi detti semplicemente si riferivano all’aspetto umano di Gesù, alla prima persona singolare, al suo ‘io’.

(b) I detti che venivano invece classificati come riguardanti la sofferenza e la resurrezione del Figlio dell’Uomo, erano giudicati un prodotto della fede post-pasquale dei seguaci di Gesù dopo la crocifissione. Questo secondo gruppo di detti era successivo alla vita e alla crocifissione di Gesù.

(c) I detti sul Figlio dell’Uomo che si riferiscono alla venuta futura di un uomo sono ovviamente di natura escatologica. Secondo Bultmann, soltanto questi detti vengono direttamente da Gesù, ma egli attendeva la venuta di un’altra persona. Gesù immaginava che una persona diversa da lui, l’escatologico Figlio dell’Uomo, sarebbe venuta con la fine apocalittica della storia. A. Yarbro Collins, ed altri, ritengono che soltanto questi detti riflettano le parole autentiche di Gesù.

 

Uno degli allievi di Bultmann portò queste conclusioni alle estreme conseguenze. Hans Conzelmann sostenne che tutti i detti sul Figlio dell’Uomo attribuiti a Gesù sono di origine sospetta. Essi sono piuttosto la creazione della riflessione post-pasquale dei seguaci di Gesù. La cristologia del Figlio dell’Uomo non è legata a Gesù; ha avuto origine nella ‘chiesa’, la comunità che (per evitare anacronismi) io ho rinominato ‘il primo movimento palestinese di Gesù’. Il termine Figlio dell’Uomo divenne un titolo a celebrare la vita terrena e l’origine celeste di Gesù di Nazareth. Il titolo non ci dice nulla del Gesù storico; ci introduce nel mondo dopo Gesù. Come il maestro di Conzelmann, Bultmann, sottolineava, Gesù non è il fondatore della teologia del Nuovo Testamento. Gesù è il fondamento della teologia del Nuovo Testamento.

 

Molti specialisti hanno cominciato a porre in discussione tutti questi presupposti e conclusioni. Per esempio: davvero Gesù non immaginava che avrebbe sofferto e sarebbe morto? In The Son of Man in Mark, M.D. Hooker sottolinea che il Figlio dell’Uomo in Daniele 7 è Israele. Ancor più significativamente, l’autore giudaico di Daniele immagina che Israele soffre perché è stato chiamato a soffrire. Hooker così giustamente sottolinea come il Figlio dell’Uomo «non solo possa ma debba soffrire». La plausibilità di questa notazione esegetica venne a rafforzarsi con l’opera di J. Bowker, The Religious Imagination and the Sense of God.

 

Nel mio Jesus Within Judaism, ho sostenuto che Gesù soffrì durante la sua vita. Erode Antipa cercò di ucciderlo, ma Gesù si salvò perché degli amici farisei lo avvertirono. Nei vangeli è detto che Gesù compose un lamento su Gerusalemme: «O Gerusalemme, Gerusalemme; che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono inviati...!» (Mt 23,37; Lc 13,34). Questo detto rappresenta le parole autentiche di Gesù. Non può essere una creazione post-pasquale dei suoi seguaci ebrei. Il perché è nel fatto che la comprensione di sé come profeta è tipica di Gesù e non dei suoi discepoli. L’auto-comprensione di Gesù come profeta definisce le sue parabole, il suo modo caratteristico, seppur non unico, di insegnare. Specialmente nella parabola dei cattivi vignaioli la percezione di sé come uno dei profeti domina il pensiero di Gesù. Questa parabola non appartiene al tempo degli evangelisti ma al tempo di Gesù; in altri termini, riflette la realtà che durante l’epoca di Gesù, e non al tempo degli evangelisti, i contadini ebrei in Palestina venivano dagli Erodi espropriati della loro terra.

 

Ancora più significante per noi ora è il fatto che Gesù immaginasse che sarebbe stato lapidato. Nessuno nel movimento gesuano palestinese dopo il 30, quando Gesù fu crocifisso, avrebbe creato un detto che è chiaramente falso e riflette tanta ignoranza sulle sorti di Gesù. Se dunque Gesù soffrì ed ebbe una auto-comprensione di dover soffrire per Dio e per il suo regno, allora non possiamo più dire che i detti sul Figlio sofferente dell’Uomo sono prima facie una creazione della comunità post-pasquale.

 

Non solo studiosi cristiani ma anche specialisti ebrei hanno dedicato la loro vita all’analisi dei testi del primo giudaismo, inclusi i vangeli canonici (che sono oggi percepiti come composti da ebrei, all’interno del mondo giudaico, negli ultimi decenni del I sec. e.v.). Gli specialisti ebrei di Gesù, in linea con gli storici cristiani del tempo di Gesù, hanno difeso due maggiori conclusioni che sono state estremamente influenti e per decenni sono state accettate come largamente condivise. Come risulterà evidente, esse mantengono l’impronta di Bultmann. Queste sono le due conclusioni:

(a) Il termine Figlio dell’uomo o evidenzia l’aspetto umano o è una semplice circonlocuzione per l’io. Il più importante e influente sostenitore di questa tesi è il professore di Oxford, Geza Vermes. È un ebreo e uno specialista della letteratura del primo giudaismo, e una persona che ha un interesse profondo per Gesù e per il cristianesimo delle origini. A sostegno di Geza Vermes si possono citare molti testi antichi, il più conosciuto dei quali è il Salmo 8: «Chi è l’uomo perché tu te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché tu ti prenda cura di lui?» (Sal 8,5[4]). Il poema offre un chiaro esempio di parallelismo; più specificatamente di parallelismo sinonimico (parallelismus membrorum). L’uomo del primo stico è sinonimo del «figlio dell’uomo» del secondo stico. Questo testo indica che figlio dell’uomo significa ‘uomo’, ma questa equazione è sempre presente nei detti sul Figlio dell’Uomo attribuiti a Gesù? Insieme a molti altri studiosi non penso che questa sia la regola.

 

 Ogni studio sull’origine del Figlio dell’Uomo dovrebbe includere una discussione sulla presenza dell’espressione in Ezechiele. In questo libro Ezechiele spesso parla di sé come del figlio dell’uomo, usando l’ebraico ben adam. Questo è chiaramente il modo preferito con il quale Ezechiele si riferisce a se stesso, e forse rivela la sua percezione di essere il messaggero chiamato da Dio, ma non è né un termine tecnico né un titolo. Figlio dell’uomo è semplicemente una circonlocuzione per ‘essere umano’ e viene a indicare il rappresentante dell’umanità che riceve le parole della rivelazione. L’espressione appare per la prima volta in Ez 2,1: ‘Ed egli mi disse: Figlio dell’uomo, alzati in piedi ed io ti parlerò’.

 

(b) In secondo luogo, specialisti nella ricerca sul Gesù storico sono giunti alla conclusione che il figlio dell’uomo non era un titolo nel primo giudaismo. Se divenne un titolo, questo accadde con le Parabole di Enoc, ma questo scritto sarebbe successivo a Gesù. Ci sono due spiegazioni. La prima è che è possibile che quest’opera sia una reazione giudaica alle pretese dei vangeli: Enoc, non Gesù, è il Figlio dell’Uomo. La seconda spiegazione è che le Parabole di Enoc sono così vicine a molti dei concetti e termini del Nuovo Testamento - quali ‘il messia’, il Giusto e il Figlio dell’Uomo - che il suo carattere teologico spinge a ritenere probabile che siamo di fronte non solo a un testo tardivo ma con ogni probabilità ad una composizione cristiana. Questa posizione fu avanzata con molta forza da J.T. Milik.

 

Questo consenso ancora regna negli studi sul Nuovo Testamento. Molti specialisti neotestamentari sono convinti, e me lo ripetono con frequenza, che il Figlio dell’Uomo non fu mai un termine tecnico o un titolo nel primo giudaismo. Sono convinti che Gesù non usò mai tale titolo, e se lo fece, fu solo per designare colui che doveva venire.

 

Decenni di studio del testo greco del Nuovo Testamento e una costante visitazione piena di apprezzamento delle composizioni in aramaico ed ebraico che chiaramente sono precedenti a Gesù e che gettano luce sulla grande creatività degli ebrei che vivevano allora in Palestina, talora in Galilea, mi hanno portato a mettere in discussione tale consenso. Se anche è improbabile che il Figlio dell’Uomo fosse un titolo nel giudaismo prima del 70, dubito che possiamo essere altrettanto sicuri che il Figlio dell’Uomo non fu mai un termine tecnico in alcuni circoli giudaici prima di Gesù. Dubito anche che possiamo essere sicuri dell’impossibilità che Gesù possa avere usato questo termine o espressione giudaica in riferimento a se stesso. Mi domando anche se egli possa aver scelto questo termine in qualche modo amorfo nel quale celare la propria vaga autocomprensione o autocoscienza e permettere al Dio creatore di plasmare il Figlio dell’Uomo nel momento in cui la sua vita e la sua missione erano rivelate. Queste riflessioni anticipano le mie conclusioni e ci riconducono al vibrante, vitale e altamente simbolico mondo del giudaismo palestinese del Secondo Tempio. E forse ci consentono di gettare uno sguardo sul pensiero stesso di Gesù. […]

 

Conclusione

 

 Abbiamo visto che ci sono buone ragioni di avere dubbi sui dubbi degli scettici - gli specialisti che avevano concluso che nel giudaismo del Secondo Tempio il Figlio dell’Uomo era solo una circonlocuzione per l’‘io’ o semplicemente un sinonimo di ‘uomo’. Uno studio penetrante e una stima dei testi del primo giudaismo, specialmente le Parabole di Enoc, ci portano a mettere in discussione questo consenso. Ho cercato di sottolineare le ragioni per cui non è più così ovvio che nessun ebreo prima di Gesù usasse il concetto, termine o titolo di Figlio dell’Uomo e che perciò Gesù non poteva aver usato questo titolo, concetto o espressione.

 

Appare ora fruttuoso domandarsi: Gesù conosceva i circoli enochici della Galilea? Avevano essi sviluppato la credenza che il loro patriarca, Enoc, l’uomo perfetto che camminava con Dio e non morì, era stato esaltato da Dio e nominato ‘Figlio dell’Uomo’? Conosceva Gesù il concetto o espressione Figlio dell’Uomo, o la scelse per nascondere la propria autocomprensione, mentre osservava come il Creatore avrebbe definita la sua identità e come la sua missione ancora in fieri si sarebbe quindi sviluppata?

 

Io sono convinto che si debba dare una risposta affermativa ad entrambi questi quesiti. Un’attenta e ragionata lettura dei testi del primo giudaismo - specialmente dei Salmi di Salomone e del 4 Ezra - rivela la straordinaria verità che nessuno può proclamarsi Messia e nessuno può essere proclamato tale da alcuno. Il Messia è nascosto e può essere rivelato solo da Dio. Se Gesù non si proclamò Messia, e secondo Marco non accettò la confessione di Pietro che egli era il Cristo, molto probabilmente egli ebbe una coscienza messianica. È plausibile, a mio giudizio, che Gesù attendesse l’annuncio da parte di Dio del suo ruolo nell’economia della salvezza, come Colui-chedoveva-venire, il Figlio dell’Uomo, anzi l’Unto di Dio, il Messia. Gesù rimase in attesa: durante la sua vita Dio non rivelò che egli fosse il Figlio dell’Uomo, il Messia.

 

In questa prospettiva si profilano alcune importante precauzioni. Si devono evitare entusiastiche interpretazione che siano cristocentriche. Da uno studio attento degli apocrifi, pseudepigrafi e manoscritti del Mar Morto non risulta che gli ebrei abbiano sviluppato il titolo Figlio dell’Uomo prima di Gesù di Nazareth. Gesù non poteva aver preso e usato tale titolo per proclamare il suo status messianico.

 

A mio giudizio, Gesù ereditò l’espressione o concetto del Figlio dell’Uomo perché era un contenitore aperto che Dio poteva riempire attraverso i suoi insegnamenti e miracoli. Gesù si aspettava che Dio avrebbe presto manifestato in un modo attivo che egli era più che l’araldo del Potere divino (il regno di Dio). Dio avrebbe certificato che Gesù era sia Figlio dell’Uomo sia Messia. In Jesus Son of Man B. Lindars giustamente sottolinea come i detti sul Figlio dell’Uomo rivelino non solo la riluttanza di Gesù a parlare di sé ma anche la sua profonda convinzione di essere chiamato da Dio. Per i suoi seguaci ebrei, il dramma della vita di Gesù non si esaurì con la sua morte sulla croce fuori delle mura di Gerusalemme, durante il tempo di Pasqua. All’interno della ricostituita e riorganizzata comunità di Gerusalemme negli anni 30 e 40 del primo secolo, Gesù fu esaltato come Colui-che-era-venuto, il celeste Figlio dell’Uomo che è il Giudice, il Messia, il Figlio stesso di Dio. Se questo è vero per il suo tempo, il loro tempo e il nostro tempo, allora c’è un filo ininterrotto che lega l’autocomprensione e la speranza di Gesù, attraverso la proclamazione dei suoi primi seguaci a Gerusalemme, alla buona novella dei vangeli e al cuore della cristologia del Nuovo Testamento.

 

Vedo gli inizi di questo nuovo approccio al primo giudaismo, a Gesù e alle origini cristiane nelle opere di autori ebrei e cristiani che sono esperti del giudaismo del Secondo Tempio e in autori cristiani che pubblicano libri di cristologia e teologia del Nuovo Testamento. Assieme a una nuova sensibilità nei confronti dei testi, una più precisa metodologia, una migliore percezione del processo di formazione e edizione dei vangeli, sta spuntando l’alba di un nuovo giorno nella storia della ricerca. Sicuramente le mie intuizioni necessitano di essere precisate e sviluppate e ciò che ho presentato è soltanto il tentativo di una sintesi di come io vedo che alcuni studiosi pensano che si debba procedere nella nostra ricerca sul Figlio dell’Uomo.

 

Il mio sforzo tuttavia non è stato vano se sono riuscito a suscitare questioni del tipo: Come e con quali modalità e per quali ragioni gli enochici, dopo 300 anni di studio e di scrittura, giunsero alla fine alla conclusione che Enoc era stato elevato al rango di Figlio dell’Uomo? Ovviamente, Gesù conosceva i molti termini e titoli cui era data valenza messianica; con lo scegliere l’espressione Figlio dell’Uomo, Gesù cerca forse di rendere manifesta la propria autocomprensione? Se così è, fu  'figlio d’uomo' o 'Figlio dell’Uomo' un termine o concetto e quale fu il suo significato; o siamo di fronte a un’idea fluida e aperta? Dal momento che Paolo non usa il termine (cfr. Eb 2,6), perché mai gli evangelisti preservano o pongono in bocca a Gesù questa idiosincratica espressione, Figlio dell’Uomo? In che modo il Figlio dell’Uomo configura la teologia e la cristologia degli evangelisti e in che modo il Figlio dell’Uomo si connette al Figlio di Dio? Che cosa voleva dire Stefano, o l’autore degli Atti degli Apostoli, quando disse di vedere «il Figlio dell’Uomo in piedi alla destra di Dio» (Atti 7, 56)? Perché mai l’espressione Figlio dell’Uomo suona così strana non solo in aramaico (e siriaco) e in greco, ma anche a noi oggi?

 

James H. Charlesworth


All'Archivio