APPROFONDIMENTI CULTURALI XXVI
(ANNO XVI, N. 1)
"ASCOLTA ISRAELE"
Lo Shema‘ ("Ascolta") è la
preghiera ebraica forse più conosciuta. Essa è costituita
da tre sezioni bibliche (Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41)
precedute e seguite
dalla recita di alcune benedizioni, e sono appunto queste ultime a rendere
l’ "Ascolta Israele", una vera e propria preghiera (cioè un modo
con cui l’uomo si rivolge a Dio). Lo Shema‘ è recitato con profonda
riverenza ed è soprattutto necessario soffermarsi sul primo versetto:
"Ascolta
Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno".
Da un commento, tutt’ora inedito, allo Shema‘ di Rav Elia Kopciowski
- già rabbino capo di Milano e infaticabile, sapiente espositore
dell’ebraismo per ebrei e non ebrei - traiamo queste suggestive e profonde
considerazioni su alcuni versi della prima sezione biblica. Mentre ci auguriamo
di poter leggere presto a stampa l’intera opera, ringraziamo Rav Kopciowski
per il permesso datoci di anticipare queste pagine sul nostro Notiziario.
"Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il
Signore è uno.
Benedetto il nome del Suo glorioso regno per
sempre, eternamente.
E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue facoltà.
Siano queste parole che Io ti comando oggi,
impresse nel tuo cuore. Le inculcherai ai tuoi figli, parlerai di esse
stando in casa e andando per la via, coricandoti e alzandoti.
Le legherai come segno sulla tua mano, e siano
sulla tua fronte, fra i tuoi occhi. Le scriverai sugli stipiti della porta
della tua casa e della tua città" (Dt 6,4-9).
Ogni suo versetto, ogni parola, perfino ogni lettera ha dato ai nostri
Maestri la possibilità di approfondire il significato dello Shema‘,
ha fornito loro i mezzi per trarre sempre nuovi insegnamenti per guidare
l’ebreo, e non soltanto l’ebreo ma, in definitiva, ogni credente, a meglio
intendere lo scopo divino nell’appello ad ascoltare.
Già il primo versetto è stato una fonte di insegnamenti
e di consigli, oltre a una guida che permette al credente di comprendere
come il riconoscimento del Dio unico abbia mutato il corso della storia
morale e spirituale dell’Umanità, abbia inciso nell’animo dell’ebreo
la fiducia, la sicurezza che l’Umanità intera avrebbe rigettato
le falsità dell’idolatria e riconosciuto l’Uno, l’Unico: "Ascolta
Israele, il Signore è Dio nostro, il Signore è Uno!".
Ma una domanda sorge spontanea: perché ripetere il Nome tetragrammato?
Non sarebbe stato sufficiente affermare: "Il Signore nostro Dio è
Uno?". La spiegazione del Rashì (1040-1105), nella sua concisione,
è molto significativa: "Ascolta Israele, il Signore che ora è
riconosciuto come Dio soltanto da noi, sarà in futuro riconosciuto
come l’Essere supremo da tutte le creature!". Ma sarà riconosciuto
non solo come l’Essere supremo, bensì come l'Uno e l'Unico! Uno,
perché non vi sono, né vi possono essere, altre divinità;
Unico perché le sue qualità sono esclusive e nessun altro
essere ha, né può avere, le qualità divine. E ancora,
rilevano i nostri Maestri, sono soltanto sei, nel testo ebraico, le parole
che traduciamo "Ascolta Israele... ". Di queste sei parole ben tre esprimono
le caratteristiche fondamentali dell'Uno e Unico.
Due volte, abbiamo visto, è citato il Tetragramma e una volta
la parola "Elohim". Fa notare lo Hirsch (1808-1888): la ripetizione
del Tetragramma, attirando la nostra attenzione, ci richiama a riconoscere
e a proclamare che tutto ciò che è contenuto nel mondo e
nell'universo è sotto il dominio dell'Unico Dio. Inoltre, secondo
la tradizione giudaica, il Tetragramma, qui reso con "Signore" o "Eterno",
indica la Middath ha-rachamim, la qualità divina della misericordia,
mentre Elohim indica la Middath ha-din, la giustizia divina. Giustizia
e misericordia, viene quindi messo in risalto fin dall'inizio della proclamazione
di fede del giudaismo, costituiscono per il pensiero ebraico le due qualità
precipue della Maestà divina!
Questo Essere Uno e Unico è Colui che detiene il potere della
giustizia e della misericordia. Ed è molto significativo che la
qualità della misericordia sia espressa due volte, mentre quella
della giustizia soltanto una volta; in tal modo l'Eterno stesso mette in
rilievo che la misericordia deve superare le esigenze della giustizia.
E' proprio questa misericordia che l'ebreo, testimone dell'Eterno
sia per se stesso, sia per l'umanità, è chiamato a ricordare
e a dimostrare, con la ‘ain con cui termina la
parola Shema‘ e la dalet di echad scritte in caratteri più
grandi in modo da formare la parola,‘ed,
"testimonio". Ma, fa notare lo Hirsch, possiamo aggiungere ancora qualcosa:
non è sufficiente che l'ebreo sia "testimonio" soltanto per aver
ascoltato!: la lettera ‘ain, la prima della parola ‘ed,
"testimonio",
significa "occhio".
L'occhio che vede, unito all'orecchio che ascolta, rendono il verso
assai più denso di significato: tutte le nostre facoltà devono
essere chiamate a testimoniare della "Unità e Unicità di
Dio", così come si è espresso Davide: "O Signore, tutte le
mie membra proclamano: ‘O Eterno, chi è come te?’"(Sal 35,10). Il
"fedele" diverrà così non un semplice testimonio, bensì
un "testimonio oculare". L'osservazione dello Hirsch si basa sul fatto
che nessuna frase, nessuna parola, nessuna lettera, nel testo divino sono
superflue; ognuna di esse vuole insegnarci qualcosa. […]
La ripetizione del Nome tetragrammato nel primo versetto ha logicamente
attirato l'attenzione di molti commentatori, e varie sono state le spiegazioni
suggerite. Abbiamo già citato il Rashi, che interpreta tale ripetizione
come un auspicio e una speranza: "Dio, che ora è soltanto il nostro
Dio e non degli idolatri, sarà un giorno il Dio di tutti gli uomini".
Si tratta di una interpretazione basata sulle affermazioni di due profeti:
"Poiché allora Io muterò in labbra pure le labbra dei popoli,
affinché tutti invochino il Nome dell'Eterno, per servirlo di pari
consentimento" (Sof 3,9), e "In quel giorno l'Eterno sarà unico
e uno sarà il suo Nome" (Zc 14,9).
Se ogni parola ci mette in condizione di aggiungere qualche cosa
di nuovo alla nostra conoscenza e di permetterci una migliore comprensione
della parola divina, un'apparente irregolarità grammaticale, così
come ogni altrettanto apparente imprecisione di linguaggio, sarà
certamente fonte di nuovi insegnamenti. È stato notato, per esempio,
che nel primo versetto dello Shema’ si usa il plurale: "L'Eterno è
nostro
Dio", mentre nel resto del brano troviamo sempre il singolare: "e amerai…,
e ripeterai ...".
Questo anomalo passaggio dal plurale al singolare ha suggerito al
Nachmanide (1194-1270) una istruttiva risposta: Dio ha compiuto per mezzo
di Mosè opere grandiose e prodigi tali da rendere il nome del protoprofeta
glorioso e indimenticabile; ma i miracoli e i prodigi erano stati compiuti
per tutto il popolo e non unicamente per Mosè. Perciò,
afferma il Nachmanide, se Mosè avesse detto "Il Signore vostroDio",
avrebbe escluso se stesso dalla collettività; ma se avesse detto
"Il Signore mio Dio", avrebbe escluso il popolo! Con le parole "Il Signore
nostro Dio" ha voluto invece sottolineare che il Signore aveva operato
i miracoli sia per lui, sia per il popolo perché sia l'uno, sia
gli altri, erano chiamati a divenire i suoi fedeli servitori, coloro che
avrebbero diffuso la Parola e la Legge.
E ne possiamo dedurre chiaramente la morale: quando rimaniamo colpiti
dalle azioni prodigiose operate dall'Eterno, ricordiamoci di non pretendere
di averne trovato la giusta, l'unica interpretazione; la nostra comprensione
è troppo limitata! Oltre a quella che ci sembra la spiegazione immediata,
non dobbiamo dimenticare che lo scopo delle azioni divine è molto
al di là di quello che noi valutiamo a prima vista. Ecco perché
i nostri Maestri si sono soffermati in particolare sulle parole "Ascolta
Israele…": per ampliare la comprensione del parola divina.
Ma, si chiede il Midrash, soltanto a Israele come popolo sono rivolte
le parole divine? No, risponde lo stesso Midrash: per "Israele" si intende
qui anche il patriarca Giacobbe che meritò per il proprio valore
il titolo appunto di "Israele", cioè: "Campione di Dio"! L’ebreo
devoto perciò, secondo il Midrash, si rivolge al suo antico padre
per confermargli, generazione dopo generazione, che ha mantenuto la sua
fede totale nel Dio unico.
Abudarham (XIV sec.) aggiunge che, con questo appello, ogni ebreo
si rivolge anche al suo fratello di fede, per ricordargli l’impegno e il
compito; lo richiama quindi all’attività comune per raggiungere
lo scopo divino; lo richiama al dovere della solidarietà e gli ricorda
la responsabilità collettiva, che è una realtà innegabile
che riguarda l’umanità intera, ma che è vitale per la sopravvivenza
del popolo d’Israele, come è chiaramente affermato: kol Israel ‘arevim
ze la-ze, "Tutti i figli d’Israele sono responsabili l’uno dell’altro".
Un’interpretazione chassidica della parola "Israele" ci sembra particolarmente
mistica e coinvolgente. Dov Baer di Lubawitch, nel suo Kunteros ha-Itpa
’aluth, sostiene che con questo solenne appello ogni ebreo si rivolge a
se stesso, si rivolge cioè alla propria anima, che è la parte
migliore di sé; a quell’"Israele Campione di Dio" che è componente
spirituale della sua essenza, come deve esserlo di ogni essere umano.
Lo Hirsch si sofferma ancora sulla parola Echad, "Uno", che
termina con la lettera dalet (d)scritta,
con un carattere più grande, per distinguerla in modo chiaro dalla
lettera resh (r)e
osserva: le due lettere si rassomigliano, ma la resh ha l’angolo superiore
arrotondato, mentre la dalet lo ha sporgente e spigoloso. E non senza ragione,
sostiene, si è voluto attirare su queste due lettere l’attenzione
di colui che prega; se infatti alla dalet della parola echad, "Uno", sostituiamo
la resh, leggiamo una parola di significato completamente diverso: non
più echad, "Uno, Unico", bensì acher, "altro", che potrebbe
essere inteso come "altra divinità"!
In pratica se sostituissimo la lettera dalet con la lettera resh,
non pregheremmo l’"Unico", ma l’"altro", e contravverremmo al Comandamento
che ci ordina di non prestar culto a qualsiasi "altra divinità".
La sostituzione della dalet con la resh, continua lo Hirsch, ci impartisce
un altro valido insegnamento: se noi consideriamo la parola acher, come
abbiamo visto, come termine per indicare "altri dèi", con un chiaro
riferimento al politeismo, viene messo in evidenza il fatto che l’ideologia
politeistica, come la resh dall’angolo smussato, ha una morale smussata,
facile da seguire, perché non impone doveri morali e richiede ben
pochi sforzi o impegni. La dalet spigolosa, conclude lo Hirsch, è
un severo richiamo alla concezione ebraica, concezione ardua ed estremamente
impegnativa, difficile da seguire perché impone una rigida disciplina
morale. In altre parole, egli conclude, se tentiamo di ‘smussare’ il nostro
comportamento rinunciando a quell’impegno spesso faticoso che ha per scopo
l’attuazione di una società, di una umanità migliore, e che
è simboleggiato appunto dall’angolosità della dalet, perdiamo
la nostra caratteristica di popolo del Dio unico, e diveniamo seguaci di
un ‘altro’ credo, indubbiamente più facile, ma totalmente vano.
Dopo la solenne dichiarazione dell’unità e dell’unicità
di Dio, è scritto: "E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue possibilità".
Cosa dobbiamo intendere con amare Dio "con tutto il cuore e con
tutta l’anima" e che cosa significa "con tutte le possibilità"?
[…]
Il comando di amare Dio è possibile solo dopo l’affermazione
solenne e ripetuta non soltanto dell’unità di Dio, ma anche della
Sua misericordia e della Sua giustizia. Ed effettivamente, come abbiamo
rilevato, la dichiarazione "Ascolta Israele l’Eterno è Dio nostro,
l’Eterno è Unico", ci ricorda sempre la ‘misericordia’ divina (menzionata,
ripetiamo, due volte nel nome tetragrammato) oltre che la ‘giustizia’ divina
(menzionata con la parola "Elohim"). Solo attraverso la convinzione della
misericordia e della giustizia divina, può nascere la serenità
ispirata dalla coscienza di aver seguito una precisa legge di comportamento
che all’amore e alla giustizia di Dio si ispira, e può nascere il
conforto, la sicurezza e l’amore verso Colui che non lascia spazio a sorprese
e a casualità di giudizio, e che infonde in noi tranquillità
di coscienza, serenità e, di conseguenza amore: amore per l’Eterno
e amore per il prossimo. […]
L’insegnamento della Torà è assolutamente innovativo,
rivoluzionario: esso afferma che ‘amore’ e ‘timore’ per il Dio di verità,
non sono in contrasto. E il ‘timore’, sia ben chiaro, non va confuso con
la ‘paura’; va inteso come ‘rispetto reverenziale’ per Colui che riconosciamo
immensamente al di sopra della nostra esistenza. Il timore di Dio inteso
nel suo senso più comune di paura, si manifesta solo quando si è
male operato contravvenendo alla Legge; quando invece agisce il concetto
insito nel nome tetragrammato che indica l’attributo divino della misericordia,
il termine è usato nel senso di rispetto reverenziale.
Ma quel che è importante e innovativo nei confronti dell’idolatria,
è che Dio opera per la giustizia e, se è vero che infligge
punizioni, che possono suscitare timore, il concetto di punizione è
ben lontano da quello di vendetta così comunemente attribuito agli
idoli. I concetti di giustizia e punizione si riferiscono sempre e soltanto
a un solo Essere, che è bontà e amore, e in cui la giustizia,
dalla quale deriva una meritata punizione, è sempre temperata dalla
misericordia.
È evidentemente dovere di ogni uomo, da Dio creato con il
suo soffio divino e che da Dio ha ricevuto il dono dell’intelligenza, dedicarsi
al Signore con tutto il suo essere, e l’amore per il Signore deve venir
esercitato e concretizzato "con tutto il cuore". Ma, si sono chiesti molti
commentatori: "Come può l’amore, che non è sotto il controllo
della nostra volontà, essere l’oggetto di un ordine così
perentorio?"
Il Maimonide (1138-1204) tratta l’argomento sia nel suo Sefer ha-mitzwot,
sia nelle Hilkhoth Jesodè Torà (122,2), e pone il precetto
dell’amore di Dio in posizione preminente, immediatamente dopo il Decalogo.
Egli sostiene, come razionalista, che anche l’amore per il Signore è
il risultato di una riflessione intellettuale; quindi rientra in ciò
che è sotto il nostro controllo. "Dobbiamo soffermarci" egli afferma
"a esaminare i Suoi precetti, le Sue parole, le Sue azioni; arriveremo
così a conoscerLo e a comprenderLo. E questa conoscenza ci permetterà
di raggiungere la gioia assoluta che costituisce quell’"amore per il Signore"
comandatoci dalla Torà; ed è questo il motivo per cui, nel
testo, il precetto "amerai il Signore tuo Dio", è seguito dall’ordine
"e queste parole che Io ti comando oggi saranno sul tuo cuore". Questo
Dio glorioso e potente, ci comandò di amarLo e di temerLo, come
è scritto (Dt 6,4): ‘E amerai…’; e pochi versetti più avanti:
"Il Signore tuo Dio temerai, [Lo servirai e giurerai per il Suo nome]"
(Dt 6,13).
Ma quale strada si deve seguire per giungere veramente ad ‘amare’
e a ‘temere’ il Signore? Risponde ancora il Maimonide: "Volgiamo un occhio
vigile e attento al mondo che ci circonda e pensiamo a Dio: riflettiamo
sulle Sue azioni, sulle Sue creature e sulle Sue creazioni così
prodigiose e grandi. I nostri occhi e i nostri cuori allora saranno pieni
di ammirazione per Lui; potremo così comprenderLo e riconoscere
la Sua saggezza infinite. Di fronte alla grandezza delle Sue creazioni,
ci renderemo conto di quanto insignificante è il nostro valore e
la nostra importanza, e a Lui ci inchineremo. La conseguenza immediata
sarà che noi Lo ameremo, Lo loderemo e Lo glorificheremo. E il nostro
animo desidererà ardentemente di conoscere il Suo nome grande. È
così infatti che il Sifrè interpreta quanto ha detto Davide:
"La mia anima è assetata di Dio, dell’Iddio vivente" (Sal 42,3).
Nel precetto "E tu amerai…", è implicito anche il dovere
di diffondere presso tutti i popoli il concetto dell’amore di Dio. E il
Maimonide, proprio per far penetrare nell’animo dell’uomo l’importanza
di questo dovere, prende l’esempio dalla vita di tutti i giorni: "Come
quando si ama e si ammira qualcuno con tutto il cuore, viene spontaneo
narrare le sue lodi, diffondersi in esse e rivolgere anche ad altri il
nostro appello ad amarlo, così pure tu mostrerai il vero amore per
Lui chiamando lo stolto e l’ignorante a conoscere quella verità
che tu hai già acquisito. Seguirai così, rileva il Sifrè,
la strada tracciata da Abramo che, al momento di ubbidire all’appello divino
di recarsi nella Terra da Dio promessa a lui e alla sua discendenza, portò
con sé "tutte le anime che aveva fatto in Haran" (Gen 12,5), tutti
coloro, cioè, che attraverso le sue parole avevano imparato ad amare
Dio" (Sefer ha-mitzwot).
Sembra quasi che il Maimonide abbia previsto le obiezioni che, in
una società come quella attuale fondata in misura così preponderante
sui valori materiali, avrebbero sollevato i sedicenti realisti, coloro
che si proclamano atei, e che considerano inutile, se non addirittura assurda,
la possibilità di diffondere la conoscenza di un Dio per loro inesistente!
Ebbene, replica il Maimonide, prendiamo l’esempio da Abramo che,
pur vivendo in una società assolutamente priva di qualsiasi scintilla
di conoscenza di Dio, era riuscito a far conoscere e a diffondere l’amore
di Dio! Era questa la qualità superiore di Abramo nostro padre,
che il Signore ha chiamato "amico mio" (Is 41,8), poiché lo ha servito
solo per amore. Quando l’uomo ama il Signore del giusto amore, ne eseguirà
tutti i precetti ‘solo per amore’.
Bachjà ibn Paquda (XI sec.) in Chovot ha-levavot (Sha‘ar
ahavà 10,1), affronta l’argomento da un punto di vista totalmente
differente: "Che cos’è l’amore di Dio?" si chiede. "È l’aspirazione
dell’anima verso il Creatore e la sua inclinazione a essere congiunta alla
Sua eccelsa luce… Quando comprenderà la Sua grandezza essa si prostrerà
e si inchinerà a Lui: non avrà altra preoccupazione che servirLo
e non avrà altro pensiero che non sia il pensiero di Dio benedetto.
Se Dio la beneficherà, ella Lo ringrazierà, se l’affliggerà,
ella soffrirà pazientemente e continuerà ad amarLo: "Tu mi
hai fatto soffrire la fame, mi hai lasciato senza vestito, mi hai fatto
abitare nell’oscurità della notte… Se Tu mi brucerai col fuoco,
continuerò ad amarTi e a gioire in Te!". Affermazione, questa, simile
a quanto disse Giobbe: "Se Egli mi volesse uccidere spererei comunque in
Lui" (Gb 13,15). A ciò alludeva anche il saggio Salomone quando
disse: "Il mio amico è per me come un sacchetto di mirra che tengo
sempre sul mio cuore" (Ct 1,13), frase che i nostri Maestri spiegano: per
quanto Egli mi angusti e amareggi, continuerò ad amarLo. E questo
è ancora quanto intende il protoprofeta Mosè con: "Amerai
il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con
tutte le tue forze" (trad. it. S.J. Sierra).
Quanto diversi da quella del Maimonide possono apparire a prima
vista l’interpretazione e il sentimento di Bachjà ibn Paquda! Per
quest’ultimo non è la visione delle meraviglie della natura, della
perfezione dell’Universo, a condurre l’uomo ad amare Dio, creatore di ogni
cosa, è al contrario la capacità di elevare se stessi al
disopra della materialità della natura e di tutto ciò che
ci circonda che ci deve far sentire partecipi dell’essenza divina, e rendere
più intenso il nostro amore per Dio. Un amore che già si
trova radicato nel nostro cuore, in quello spirito divino che è
in noi e che è parte della divinità: dobbiamo soltanto evitare
gli ostacoli che si trovano sulla sua strada e tutto ciò che può
farlo deviare verso interessi estranei, per permettergli di essere illuminato,
riempito dalla luce celeste.
Questi due approcci all’amore di Dio, apparentemente in contrasto,
sono al contrario complementari. Il giudaismo fonda il suo credo, la sua
dottrina, il suo insegnamento, sia sui principi razionali, sia su quelli
spirituali: ambedue sono di origine divina anche se gli esseri umani sono
portati poi a sviluppare in modo diverso le loro tendenze. La raccomandazione
di "amare il Signore" non può quindi esaurirsi in un ragionamento
intellettuale, ma abbraccia tutte le inclinazioni, tutte le aspirazioni
dell’uomo. Riallacciandoci alle sofferenze di Giobbe, ne traiamo l’insegnamento
che non ci si può limitare ad amare Dio soltanto quando ci elargisce
il bene, ma lo si deve fare anche quando gli avvenimenti che paiono accanirsi
contro di noi, ci indurrebbero a reazioni negative. Bisogna amarLo perché
è nostro ‘Padre’, e perché il volere dell’Eterno è
imperscrutabile e non sempre compreso dall’uomo, ma sempre rivolto al bene.
E con questa affermazione non soltanto innovativa, ma addirittura
rivoluzionaria, viene completamente capovolto il concetto del dio padrone
e tiranno, per introdurre quello del Dio ‘padre’ di tutte le sue creature,
Creatore di un mondo e di un universo non abbandonati al caso, ma da Lui
seguiti con amorosa, paterna attenzione. Un Dio che merita il nostro amore
per la Sua continua vicinanza e assistenza.
Secondo i nostri Maestri, in una interpretazione che può
apparire paradossale, amare Dio "con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima,
con tutte le possibilità" significa amarlo "sia con l’istinto buono
sia con quello cattivo!". Osserva tra gli altri lo Hirsch: "Gli stimoli
che ciò che è cattivo, spregevole, bassamente materiale e
sensuale suscitano in noi, e dai quali deriva l’istinto cattivo, ci sono
stati dati proprio dal medesimo Creatore, uno e unico, che ci ha dotato
di quegli stimoli che ci spingono al bene, all’amore, alla giustizia, alla
morale, dai quali deriva l’istinto buono. Se non esistessero cattivi istinti,
o se essi causassero nella nostra natura un istintivo senso di rifiuto
e di ripugnanza mentre, al contrario, fossimo fortemente, naturalmente
attratti da tutto ciò che è buono e morale, ben poco merito
avremmo nello scegliere il bene! E se il bene e il male non fossero legati
e intrecciati così strettamente fra di loro da renderci spesso tanto
difficile distinguerli, cosicché solo con un attento studio e una
profonda riflessione possiamo fare una giusta scelta e imporci sia un continuo
autocontrollo, sia dolorose rinunce, certamente non commetteremmo il male.
"Ma neanche il bene!" . Ci limiteremmo a seguire una via già tracciata
e senza possibilità di deviazioni, che non ci porterebbe alcun merito
in quanto nessuna azione potrebbe essere considerata una scelta compiuta
dall’uomo in piena libertà morale.
Con l’eliminazione dell’istinto cattivo tutto il nostro comportamento
morale sarebbe privo di valore. O, per essere più precisi, non esisterebbe
un comportamento morale. Amare il Signore con l’istinto buono e con l’istinto
cattivo significa quindi consacrare, dedicare tutti i nostri pensieri,
tutte le nostre tendenze, tutte le nostre capacità e aspirazioni,
allo scopo di adempiere alla volontà dell’Eterno. Ogni nostra azione,
anche la più insignificante, deve esprimere la nostra dedizione,
il nostro desiderio di servire l’Eterno, affinché, dominando tutti
i nostri istinti con una precisa e decisa volontà, ci avviciniamo
sempre più a Dio.
Con il comando "e amerai… con tutto il tuo cuore", diamo un senso
alla nostra vita dimostrando di essere pronti in ogni momento a combattere
le nostre cattive inclinazioni e a rinunciare ai desideri, a volte profondamente
intensi, per esaudire la volontà dell’Eterno.
Un ulteriore insegnamento di fondamentale importanza deduciamo dalle
parole dello Shema’: l’amore per Dio non può e non deve rimanere
un concetto puramente astratto, né può esaurirsi con la sola
preghiera: esso deve essere concretizzato e attuato con un’azione a cui
partecipa tutta la nostra persona: il sentimento e l’azione, le nostre
forze spirituali e quelle fisiche, i nostri beni materiali e il sacrificio
di ciò che noi consideriamo il nostro benessere, tutto deve essere
consacrato all’amore per l’Eterno.
"Amerai Dio con tutta la tua anima", afferma il Talmud, significa
amerai il tuo Dio "perfino se prende la tua anima" (b .Berakhot 54a). Perché
la nostra anima è dono di Dio e, come ci è stato insegnato,
"dobbiamo essere pronti a restituirla a chi ce l’ha donata in qualsiasi
momento Egli ce la richieda" (ivi, 61b). Vi è qui un chiaro riferimento
anche al sacrificio e al martirio "per la santificazione del nome del Signore"
(‘al qiddush ha-Shem) e per la realizzazione dei suoi ideali di bontà
e di giustizia. Per l’amore di Dio si può, si deve essere pronti
a offrire anche il sacrificio supremo: la perdita della vita […].
Il verso "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con
tutta la tua anima, con tutte le tue possibilità" ci pone di fronte
a uno strano interrogativo: che cosa può essere per l’uomo più
importante, più caro della propria vita? Ma, per quanto assurdo
ciò possa sembrare, c’è chi considera il denaro, la ricchezza
materiale, il possesso persino più importanti della propria vita.
Ebbene, in questo caso è bene che essi sappiano che c’è qualcosa
che supera di gran lunga il valore dell’avere: la fedeltà a Dio
e l’amore per Lui. Con il comando "con tutte le tue possibilità",
afferma il Talmud (ivi 54a), lo Shema’ ci insegna che non dobbiamo limitarci
ad amare Dio solo con lo spirito, ma anche materialmente: ciò significa
con le nostre azioni e con i nostri averi; in altre parole anche con tutto
ciò che possediamo materialmente, usando i nostri beni a favore
di chi ne ha bisogno, o per scopi culturali e religiosi, o per la diffusione
della fede.
Elia Kopciowski
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