SEMINARI ESTIVI, 21-29 AGOSTO
2001
Alla relazione 
Una contadina e una regina: Rut ed Ester
21-25 agosto. Relatori: prof. Paolo De Benedetti
e pastora Elisabeth Green, con un intervento di Piero Stefani.
Ester e Rut sono due dei tre libri “femminili” della Bibbia. Il terzo
è il Cantico dei cantici, cui Biblia ha già dedicato un seminario
a Verbania Intra nel 1989. Femminili e primaverili, sia per il loro paesaggio
che va dall’inizio della fioritura alla mietitura, in Israele più
precoce che da noi, sia per il loro contesto liturgico, da Pasqua a Shavuot.
Il piccolo libro di Rut (che nel canone cristiano segue i Giudici per la
contemporaneità dichiarata nel suo primo versetto, e nel canone
ebraico si trova fra i “cinque rotoli” corrispondenti a cinque feste) ha
una ricchezza di temi che maturano, come il frumento – vero motore della
vicenda -, ma hanno bisogno di “mietitori e spigolatrici” per essere colti:
la storia (che va contro tutti i luoghi comuni) di una nuora che ama la
suocera, le regole – diverse da quella deuteronomistiche – del levirato
e del go’el, il fatto che una moabita – contro tutti i divieti della
Torà – entra “nell’Assemblea del
Signore” al punto di diventare antenata di David e quindi del Messia,
la sua elevazione a modello per le future conversioni all’ebraismo. E,
sullo stesso sfondo, il tema del ritorno, capitale per l’ebraismo stesso,
sia come ritorno dell’uomo, sia come ritorno di Dio.
Dio e ritorno sono del tutto assenti dalla meghillat Ester,
libro diasporico per eccellenza, libro assimilazionista, e in tal senso
lontano presagio di una shoà per il momento non avvenuta:
l’unica shoà non avvenuta nella storia ebraica (e non a caso
si tratta di una novella). Forse l’insegnamento che se ne può trarre,
e che ne è stato tratto dai maestri d’Israele, è che Dio,
di fronte a un suo popolo così assimilato e forse neppure tanto
osservante, interviene perché gli bastano un solo giusto, Mordecai,
e l’esistenza di tanti bambini (si confronti la conclusione del libro di
Giona). Ma questa “morale” fa parte della favola e non della nostra storia.
E allora perché a Purim si fa tanta festa per una “sorte”
che forse non è mai avvenuta? Forse perché l’adlojadà
(l’obbligo di bere “fino a non distinguere il buon Mordecai dal perfido
Haman”) ci offre l’unica evasione da ben altri ricordi: e una volta all’anno
– una non di più – ciò è aequum et salutare,
permesso e doveroso.
Paolo De Benedetti leggerà e commenterà i due
libri di Rut ed Ester. La seconda relatrice, Elisabeth Green, interverrà
nell’arco dei quattro giorni mettendo in luce, con la sua ben nota competenza,
gli aspetti connessi a una lettura femminile dei nostri due testi. Le parti
greche (deuterocanoniche) del libro di Ester, con particolare riferimento
alle preghiere di Mordecai e di Ester saranno trattate in uno specifico
intervento di Piero Stefani.
Breve bibliografia
E. BIANCHI, Lontano da chi? Commento al Cantico dei Cantici, Ruth,
Lamentazioni, Qohelet, Ester, Gribaudi, Torino 1977.
S. CAVALLETTI, Ruth-Esther, Edizioni Paoline, Roma 1983.
D. LATTES, Il libro di Ruth, Unione delle comunità Israelitiche
Italiane, Roma 1966.
C. LEPRE, Il libro di Ruth. Introduzione, traduzione e commento,
D’Auria, Napoli 1981.
C. MESTERS, Rut, Borla, Roma 1987.
A. PENNA, Giudici e Rut, Marietti, Torino 1963.
J.W.H. VAN WIJK-BOS, I libri di Ruth, Ester e Giona, Claudiana,
Torino 1992.
Alla relazione 
‘Chokhmà’,‘Sophia’, Sapienza: il libro
della Sapienza
25-29 agosto. Relatori: proff. Gabriele Boccaccini
e Luca Mazzinghi, con un intervento di Amos Luzzatto.
Il libro della Sapienza è uno dei testi più rappresentativi
del giudaismo di lingua greca. Scritto ad Alessandria d’Egitto a cavallo
tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., ha
avuto una storia singolare. Dopo quattro secoli di incertezze, rifiutato
dall’ebraismo, fu accolto invece come testo ispirato dai cristiani e lo
è ancor oggi per la Chiesa cattolica; verrà di nuovo messo
in discussione all’epoca della Riforma ed escluso dal canone di Lutero.
Il libro è scritto in un greco colto e di carattere poetico
e rappresenta un significativo punto d’incontro tra il mondo giudaico e
la cultura ellenistica. Destinatari del libro sono i giovani giudei alessandrini,
tentati di seguire troppo da vicino le mode del tempo e, in nome della
cultura greca, abbandonare la fede dei padri. Senza tradire tale fede,
il saggio alessandrino autore del libro vuol mostrare come sia possibile
vivere da ebrei nel proprio tempo senza rifiutare del tutto le proposte
di un mondo apparentemente così diverso.
La teologia del libro della Sapienza ruota intorno a tre punti essenziali:
la prima parte del libro (Sap 1-6) si apre con una riflessione sull’escatologia,
ovvero sul diverso destino che attende il giusto e il malvagio. Per lui
c’è la vita eterna (che per la Sapienza consiste nella resurrezione
dei corpi), per gli altri, invece, le tenebre dell’Ade. Al
cuore del libro (Sap 7-10) ci viene presentato un elogio della sapienza,
donata da Dio agli uomini e accostata
allo spirito santo presente nel mondo e nell’uomo; la sapienza è
così qualcosa che non sembra molto lontano dall’idea cristiana di
grazia. Il libro si chiude con una lunga riflessione sul passato d’Israele
(Sap 11-19), l’esodo e il cammino nel deserto, che è riletto alla
luce della prospettiva escatologica della prima parte del libro; il passato
diviene così modello e fondamento del futuro e il libro più
chiudersi con l’annuncio di una creazione rinnovata. All’interno di quest’ultima
parte, due digressioni si occupano della critica all’idolatria (Sap 13-15)
e dell’altro tema di fondo dell’opera: la misericordia di Dio che garantisce
la bontà della creazione (Sap 11,16-12,27).
Gabriele Boccaccini terrà due incontri sull’origine della
tradizione sapienziale e su come essa viene sviluppata nell’ambito del
giudaismo ellenistico; Luca Mazzinghi offrirà una lettura
corsiva del libro, nel corso della quale saranno sottolineati gli aspetti
più importanti; Amos Luzzatto mostrerà come un altro
tipo di giudaismo, quello rabbinico, affronti il tema dell’esodo parlando
di alcuni passi tratti da un celebre midrash, la Mekilta.
Per approfondire lo studio, sono disponibili in italiano alcune opere
particolarmente importanti: per un primo approccio, cf. la semplicissima
introduzione di carattere divulgativo di L. MAZZINGHI, Il libro della
Sapienza (La Bibbia nelle nostre mani; San Paolo, Cinisello Balsamo
1997). Un ottimo commentario, particolarmente esauriente, di buon livello
scientifico ma sufficientemente accessibile, è quello di J. VILCHEZ
LINDEZ, Sapienza (Borla 1990); il migliore in assoluto resta
quello in tre volumi di G. SCARPAT, Sapienza, I-III (Paideia, Brescia
1988-1992-1999), per il quale è indispensabile un’ottima conoscenza
del greco. Ricordiamo infine la raccolta di studi di M. GILBERT, La
Sapienza di Salomone, 1-2 (ed. ADP, Roma 1994-5). Due esempi di letture
di carattere spirituale sono i testi di C. ZIENER, Il libro della Sapienza,
Meditazioni Bibliche (Città Nuova 1972) e A. SCHENKER, Il libro
della Sapienza (Città Nuova, Roma 1995).
RELAZIONI
“Una contadina e una regina: Rut ed Ester” (21-25 agosto)
Rut ed Ester: due libri cari all’ebraismo, che li ha inseriti tra le
Meghillot, i cinque Rotoli biblici letti nelle principali feste liturgiche;
due libri che vedono per
protagoniste due donne, all’apparenza fragili e deboli ma capaci di
rovesciare le sorti della famiglia (Rut) o del popolo (Ester) cui appartengono.
Le giornate che Biblia ha dedicato a queste straordinarie figure femminili,
tenutesi nell’incantevole cornice delle Dolomiti, sono state dense di studio,
di spunti di riflessione, di scambi di opinioni e di discussioni accalorate.
Come se tutti i partecipanti si sentissero a un tempo sedotti e provocati
dal testo biblico (commentato con maestria dagli ottimi relatori, Paolo
De Benedetti ed Elisabeth Green): e lo studio si è fatto
dialogo a più voci.
Non è facile dare conto della varietà di spunti emersa
nel corso del seminario. Voglio tentare di farlo in maniera del tutto personale,
soffermandomi su due temi che più mi hanno colpita: un approccio
da neofita della Bibbia, insomma – e non me ne vogliano gli esperti.
Il tema della femminilità.La storia di Rut ed Ester è
(anche) il racconto di un gioco di seduzione di grande sottigliezza psicologica.
Entrambi i libri hanno al centro una storia d’amore a lieto fine, narrata
con grande finezza di stile: come a voler precorrere i tempi, assai posteriori,
della nascita del romanzo moderno.
Prima che esse divengano strumento di qualcosa che va oltre loro stesse,
le due donne sono pienamente inserite nel loro tempo e agiscono, pur nello
svantaggio imposto dalla loro condizione subalterna, dispiegando le armi
da sempre appartenenti al sesso femminile, ossia la grazia e la seduzione.
Entrambe sono molto belle, naturalmente. Rut, la Moabita, possiede una
grazia straordinaria quando si accinge a spigolare nel campo di Booz, così
che presto «trova grazia ai suoi occhi». Ester è immagine
di bellezza indifesa (come non ricordare il volto dolce e intenso della
Ester di Filippo Lippi?), ma non ignora il segreto della seduzione:
e il lungo tempo di preparazione all’incontro col temibile re pare trasformi
la sua avvenenza di fanciulla in un fascino che «attirava la simpatia
di quanti la vedevano.»
Entrambe conoscono la fragilità del maschio, e vincono con l’arte
dell’adulazione, dell’umiltà amorosa, della sottomissione. Entrambe
sono sole – sull’aia o
nel palazzo regale – di fronte al maschio potente, ma si dimostrano
capaci di condurre il gioco. Persino Dio tace nel corso delle loro tormentate
vicende, ma il loro agire fa sì che la prosperità vinca sull’indigenza,
la vittoria sullo sterminio. A vincere è il femminile come controparte
dell’aggressività bruta e cieca, della rozzezza e della stupidità
capaci di produrre distruzione e dolore.
Il tema della «distruzione» di Dio. Un dio assente
dalla cornice di queste storie tanto umane, un dio che non viene invocato
(se ci si sofferma sul solo testo ebraico di Ester) né nominato.
Un dio dall’agire inafferrabile dentro la spesso evidente casualità
degli eventi umani. Nessuno potrà mai più permettersi di
dare a questo dio obscurus un termine «di cinque giorni»
perché intervenga nelle avversità umane.
«Chi sa che tu non sia stata elevata a regina proprio in previsione
di una circostanza come questa», dice Mardocheo a Ester. «Chi
sa ...» : è il domandare a Dio, non per indovinarne (o programmarne!)
l’agire, ma per cercare di fare un po’ di luce sul presente. È un
andare «oltre dio» cercando di sorpassare le idee determinate
che l’uomo si fa di lui.
«Distruggere» Dio, cioè spogliarlo dei propri attributi,
che lo rendono ancora un io determinato. Si tratta di un tema tanto caro
quanto ricorrente anche nella mistica speculativa occidentale e orientale.
Il mio ricordo va al capitolo conclusivo dei «De mystica Theologia»
di Dionigi Areopagita, costruito su una serie di negazioni e di negazioni
delle negazioni, quasi a voler dimostrare l’ineffabilità di Dio,
che trascende ogni possibile affermazione e negazione umana. E mi viene
in mente- con un salto di oltre un millennio - il pensiero di un grande
contemplativo dei nostro tempo, David Maria Turoldo:
«Sì, bisogna distruggerti, Dio, / per crederti quale sei
/ E quando il pieno Nulla / avremo raggiunto / finalmente saremo / una
«cosa» sola, / o Deità.»
Torno, per concludere, al punto di partenza, ossia alla storia di due
semplici donne, deboli in terra straniera, forti nel capovolgere le avversità.
Il discorso mi ha condotta più lontano, ma forse è anche
questo lo scopo dei seminari di studio sulla Bibbia: quello di offrire
un punto di partenza per (ri)leggere questo libro straordinario
e scoprirne l’infinità di percorsi.
Raffaella Colombo
“Chokhmà, Sophia, Sapienza: il libro della Sapienza”
(25-29 agosto)
Nello scenario suggestivo delle Dolomiti si è svolto dal 25
al 29 agosto 2001 il Seminario estivo di BIBLIA dedicato al Libro della
Sapienza. Il programma ha opportunamente accostato tre diversi approcci
alla Scrittura: storico (prof. Gabriele Boccaccini), midrashico
(prof. Amos Luzzatto), esegetico (prof. Luca Mazzinghi).
È stato così possibile distinguere la specificità
delle diverse metodologie di studio e apprezzarne i risultati: cioè
cogliere il doppio movimento che sempre attraversa il lavoro interpretativo,
che da un lato ricolloca i testi in esame nel contesto storico-sociale
nel quale hanno preso forma, dall’altro li evidenzia come opera di intelligenza
dei fatti storici stessi e come portatori del significato ispirato nelle
letture che si muovono entro l’unità di senso e di significato teologico
colta dai diversi canoni.
Esemplare in tal senso – ma a ciò è stato fatto appena
un discreto cenno – è la sorte dello stesso Libro della Sapienza,
presente nel canone cattolico, ma assente nel canone ebraico e protestante
e lasciato, dopo alterne vicende, alla libera scelta nelle Chiese ortodosse.
(J. Vilchez Lindez, Sapienza, Borla, Roma 1990, p. 125)
Il prof. G. Boccaccini ha presentato lo sviluppo della tradizione sapienziale
e della concezione stessa di ‘sapienza’ entro la mobile realtà del
quadro storico
politico-sociale del mondo ebraico.
In età pre-esilica, quando la religione ebraica è una
variante in senso monoteista della religione cananaica, che è politeista,
la Chokhmà-Sapienza è la dea dell’ordine del cosmo,
che solo il dio supremo conosce, ma che per puro dono rende accessibile
all’uomo consentendogli di cogliere, attraverso la ripetitività
dei fenomeni, l’ordine delle strutture dell’universo, da cui trarre utili
norme di vita, una ‘sapienza’ del vivere. Si tratta di un’esperienza di
carattere universale e dunque di una sapienza tendenzialmente cosmopolita,
aperta agli apporti di culture e popoli diversi.
In ambito specificamente ebraico, i tre diversi gruppi sociali dei
sacerdoti, dei profeti e dei saggi accedono alla rivelazione divina attraverso
tre diverse modalità: attraverso pratiche cultuali-sacrificali i
sacerdoti, attraverso pratiche divinatorie la parola ispirata dei profeti,
attraverso la riflessione sull’esperienza umana, trasmessa all’interno
della famiglia o elle scuole scribali, i saggi, che restano indipendenti
dal Tempio ed in stretto rapporto di scambio con ambienti affini dei popoli
circonvicini. “La caratteristica più rilevante anche della tradizione
sapienziale giudaica alle sue origini è proprio questa dimensione
cosmopolita e laica che evita ogni riferimento alla rivelazione mosaica
e al sacerdozio d’Israele”. (G. Boccaccini, Note introduttive alla tradizione
sapienziale giudaica, in dattiloscritto ad uso dei corsisti ).
Nel post-esilio il sacerdozio sadocita, che ha assimilato a sé
la corrente profetica, prospetta una concezione dell’universo come ordine
creato da Dio attraverso un processo di separazione/distinzione sia spaziale
che temporale, che si rispecchia puntualmente nelle norme della Torà
e nell’ordine sociale nel quale la classe sacerdotale stessa è dominante
In atteggiamento non ostile, ma critico nei confronti di tale visione,
la tradizione
sapienziale, che prosegue mantenendo la propria autonomia, non accetta
tale corrispondenza fra Torà e ordine cosmico: afferma
un ordine dell’universo, ma lo ascrive all’imperscrutabile, sapiente e
libero disegno di Dio, che non è condizionato dal Patto e a cui
è bene che il singolo si adegui (Gb;Gn;Qo).
Frutto della saldatura che si realizza in età ellenistica fra
tradizione sacerdotale sadocita e tradizione sapienziale è la concezione
della Sapienza che viene espressa in Tobia e compiutamente nel Siracide:
la Sapienza è prima creatura, cui Dio comanda di prendere dimora
in Sion, essa è cioè offerta all’uomo in Israele e il suo
luogo è la Torà di Mosè.
Tuttavia nella diaspora e in particolare nella diaspora ellenistica
la tradizione sapienziale continua indipendentemente dalla tradizione sadocita:
la Chokhmà-Sophia non è creata, rimane un attributo
di Dio, una sua manifestazione e identificata con il Logos, termine
dalle riverberazioni multiple. Per Filone il Logos-Sophia è
l’immagine del cosmo che Dio forma nella propria mente, in base alla quale
crea il mondo. La Torà è data poi da Dio in armonia
con le leggi del cosmo.
Le due grandi riforme emergenti dal giudaismo antico, il giudaismo
rabbinico e il cristianesimo identificheranno la Sapienza gli uni con la
Torà, che verrà affermata come preesistente al cosmo
stesso il cui ordine ne diviene un riflesso, gli altri, più vicini
al giudaismo ellenistico, ne vedranno collimare i tratti distintivi con
quelli della persona di Cristo.
Amos Luzzatto, traendo spunto per il suo intervento dal commento midrashico
Mekhilta all’Esodo, che è tema dominante nella terza parte
del Libro della
Sapienza, ha dedicato il suo intervento soprattutto a precisare
i caratteri dell’approccio interpretativo midrashico alla Scrittura nella
tradizione rabbinica.
L’insieme delle interpretazioni autorevoli (ma anche di quelle che
non sono considerare tali si tramanda notizia) si presentano come dibattiti
lasciati ancora aperti come appello al presente, all’intervento attivo
sul testo dell’ebreo di oggi, sulla scorta di precise e ben note regole
interpretative, di cui ha offerto alcuni saggi. Ha concluso presentando
alcuni esempi di interpretazione midrashica tratta dalla Mekhilta.
Quantunque ignorato dal canone ebraico, il Libro della Sapienza
– ha affermato esordendo Luca Mazzinghi – è un testo profondamente
giudaico. Opera
raffinata per lingua, stile, struttura e forma letteraria la Sapienza
di Salomone si rivolge ad un uditorio colto, educato alla retorica
classica, ma in un orizzonte di comprensione che è del tutto e profondamente
biblico, anche se ripensato attraverso categorie ellenistiche.
Ascritto all’età augustea e all’ambiente del giudaismo ellenistico
gravitante attorno ad Alessandria, culturalmente raffinato, variegato,
cosmopolita, percorso da ogni sorta di correnti culturali e religiose,
si rivolge ai giudei della città in lotta per la conquista dei diritti
civili e, nello spirito della paideia, ai giovani chiamati a compiti
di responsabilità, che intende educare ad un rapporto corretto con
la cultura ellenistica.
Verso di essa, nei suoi aspetti più deteriori, l’autore intesse
una critica serrata, che privilegia la confutazione razionale e l’abile
utilizzazione in senso polemico degli stessi argomenti degli avversari,
siano essi di carattere religioso o filosofico, ma restando in dialogo
con la cultura ellenistica nei suoi aspetti più alti.
Tale elaborata tessitura consente all’opera di spaziare entro un orizzonte
vastissimo, che rimane tuttavia sempre quello della tradizione dei Padri,
percorso in
profondità da un ripensamento dell’intero patrimonio spirituale
ebraico, a partire da Genesi.
Il testo infatti abbraccia creazione, storia ed escatologia giungendo
ad affermazioni sul destino ultimo dell’uomo di grande novità e
portata. Fondamento dell’escatologia è la storia, questa storia
e questo cosmo, che riposano sul disegno sapiente di Dio.
La Sapienza conosce i misteri di Dio, l’ordine secondo il quale Dio
ha creato l’universo e che informa di sé l’intero cosmo: essa diventa
così, se donata alla conoscenza dell’uomo che la ricerca e la richiede
nella preghiera, corretta valutazione della realtà, capacità
di retto giudizio e quindi arte del buon governo della vita propria e della
comunità. Vi è rapporto fra Sapienza e Legge, ma senza la
Sapienza la Legge non serve.
La sovreminente potenza di Dio nel suo operare sapiente sia nella creazione
che nella storia – come esemplarmente
nell’Esodo – si rivela in radice amore – il termine qui compare per
la prima volta nella Scrittura – misericordioso: tutto perciò Egli
crea per la vita e tutto governa a questo fine: ebrei e pagani e l’intero
cosmo.
Poiché Dio ha creato l’uomo ‘a propria immagine e somiglianza’
– da questo punto l’autore trae la forza della propria argomentazione –
la vita che gli ha
donato è una vita senza fine, che continua dunque al di là
della morte fisica. La vera morte, che Dio non ha creato, è la dannazione
eterna che si presenta così come autocondanna: l’autore introduce
qui il concetto di duplice morte, come dato naturale e come punizione eterna,
di cui la morte fisica è segno solo per gli empi, per i giusti è
invece passaggio alla vita. Non fa cenno tuttavia in modo preciso ad una
risurrezione
Nelle sette antitesi finali, che riprendono con taglio midrashico episodi
dell’Esodo, il passato diventa presente e diventa paradigma del futuro:
il Dio che crea è il Dio che salva nonostante le ripetute cadute
dell’uomo, poiché è il Dio che crea proprio in vista di una
salvezza che rinnoverà l’intero cosmo.
Uditorio attentissimo, sequela inesauribile di domande, arginate dalla
generosità e professionalità dei docenti, privati, senza
pietà alcuna, di intervalli e pause-caffè.
Paola Codegone
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