«IL POPOLO DEL RITORNO: L'EPOCA PERSIANA E LA BIBBIA»

Seminario invernale, Lucca, 27-30 gennaio 2000

P R E S E N T A Z I O N E

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La qualità dei contributi e la numerosa partecipazione di soci e non soci al seminario invernale del 1999 dedicato ai babilonesi, hanno confermato la validità della scelta compiuta da Biblia di occuparsi, per un certo numero di anni, dei reciproci influssi culturali avvenuti tra i popoli della Bibbia. In altre parole, per seguire passo passo la storia biblica è apparso opportuno prendere in considerazione alcune delle civiltà con cui, a partire dall'esilio babilonese, il popolo ebraico è entrato più strettamente in contatto
Questa impostazione, per forza di cose, deve essere molteplice in quanto è obbligata a tener conto sia del modo in cui quei popoli sono visti dalla Bibbia - la quale resta il punto di riferimento castante del nostro interesse - sia delle maniere in cui quelle civiltà si sono autonomamente costituite e interpretate, sia, infine, dell'esistenza di influssi e di intrecci ancora più articolati avvenuti tra popoli e culture.
Nel caso dei persiani la differenza di prospettive tra alcuni modi biblici di vedere determinati personaggi provenienti da quella civiltà e la presumibile autocoscienza da essi avuta del proprio operato diviene particolarmente evidente. II caso più clamoroso è senza dubbio quello di Ciro. Questo sovrano della dinastia degli Acamenidi (550-530), dopo aver sconfitto Astiage, re dei Medi, fondò 1'impero di Media e Persia. Nel 547-546 s'impadronì della Lidia e nel 539 conquistò Babilonia, permettendo a molti deportati, tra cui quelli provenienti da Giuda, di tornare ai propri paesi. Letto in questo modo il tutto sembra risolversi in uno degli infiniti scontri tra potenti che contraddistinse la storia del Medio Oriente antico. La Bibbia interpreta invece alcuni di questi avvenimenti in tutt'altra chiave. Per rendersene conto basta rivolgersi al cosiddetto Libro delle consolazioni attribuito al Secondo-lsaia (Is 40-55). Nella sua redazione definitiva questa sezione, scritta da un profeta esilico, fonda il suo annuncio di liberazione su tre capisaldi: il riconoscimento dell'unicità e dell'universalità di Dio da parte di tutti i popoli, la vanità e la falsità degli idoli e la messianicità del re di Persia: «Così, dice il Signore del suo unto (mashiach), di Ciro...» (Is 45,1). Quest'ultimo oracolo - dotato di sorprendenti paralleli con un testo babilonese in cui Marduch ha «nominato per nome Ciro e lo ha chiamato a dominare su tutta la terra» - proclama 1'azione diretta del Dio d'Israele nei confronti del re di Persia che pure nulla sa del Signore. Non a caso, secondo la proposta del noto esegeta, Claus Westermann, 1'espressione «Davvero tu sei un Dio che continui a tenerti nascosto, Dio d'Israele che salvi» (Is 45,15) rappresenterebbe proprio la risposta del Secondo-Isaia (o di un suo glossatore) all'oracolo relativo a Ciro (Is 44,24-45,7). Il Dio nascosto è colui che opera anche là dove non è riconosciuto. Fatte salve le differenze di genere, anche per il favolistico libro di Ester si possono sostenere cose analoghe. Il re Assuero non è altri che il famoso Serse I (485-465), conosciuto nei libri di scuola per la sconfitta da lui subita a Salamina; ma al suo riguardo la preoccupazione della Bibbia non è certo quella storiografica.
All'inizio della sua pionieristica opera, Persia religiosa da Zaratustra a Bahâ'u'llah (Il Saggiatore, Milano 1959), il grande Alessandro Bausani scriveva: «Dal punto di vista comparativistico, non è esagerato affermare che lo zoroastrismo ha fornito il materiale per la costruzione delle leggende escatologiche di tutte le grandi religioni del mondo civile: I'Islàm, il tardo ebraismo, e in gran parte anche, per misteriose vie, il mondo delle saghe scandinave, il mondo delle leggende medievali cristiane sono senza dubbio tributari della religiosità iranica per le loro visioni angeliche ed escatologiche» (p.19). Vista a partire da una prospettiva interna, la Persia appare così una delle fonti più importanti per comprendere quel senso escatologico che, in modo diretto o indiretto, ha inciso tanto in profondità nella cultura di tutto 1'Occidente.
Tuttavia anche quest'ultima ragione è, per certi versi, ancora troppo strumentale; la civiltà persiana infatti non ci interessa solo per quel tanto che ci aiuta a capire noi stessi. Invero questa preoccupazione è già positiva in quanto implica la convinzione che tutte le civiltà, ivi compresa ovviamente quella persiana, non sono dei compartimenti stagni. Le religioni e le culture iraniche vanno studiate anche in loro stesse; analogamente, Zaratustra ha il diritto di essere emancipato dal venir associato immancabilmente al nome di Friedrich Nietzsche; e questo resta vero anche se ben poco si può effettivamente sapere di colui che i greci chiamarono Zoroastro. Perciò se, grazie a guide di comprovata competenza, diverranno familiari nomi come mazdeismo, asha o drug (di cui ora non sveleremo il significato), oltre ad aver aggiunto qualche conoscenza al proprio bagaglio culturale, avremo occasione di riflettere su temi cruciali per ognuno di noi, a iniziare da quelli relativi al bene e al male.
Piero Stefani


 
 

RELAZIONE SUL: SEMINARIO INVERNALE «IL POPOLO DEL RITORNO: L’EPOCA PERSIANA E LA BIBBIA»
 LUCCA 27-30/01/2000

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Ripensare il rapporto tra i “popoli della Bibbia” è sempre fruttuoso e il seminario di Lucca ne ha dato un’ulteriore conferma perchè è servito ad illuminare il mondo persiano non solo dalla prospettiva della fine dell’esilio e del ritorno ebraico, ma anche il modo in cui l’ecumene iranica è stata vista - nel filtro greco e poi greco-romano - o non vista dall’occidente; le trasmigrazioni di popoli come quelle di idee sono sempre produttive, anche se le contiguità e la ricchezza degli influssi reciproci si possono oggettivamente cogliere solo quando si è disposti a vedere la trama complessa, ma aperta, degli imprevisti. Basta pensare che l’ossessione della tradizione cristiana dell’anno millenario deriva in fondo da una predilezione persiana per il “magnus annus” per capire come sia impossibile fare la storia dell’occidente nascondendo l’eredità dell’oriente: si deve imparare anche a rifare al contrario il cammino di Abramo.
La quieta bellezza invernale di Lucca è stata perciò la cornice di tre intense giornate, dedicate al “popolo del ritorno”, alla memoria dell’esilio e al postesilio, per la storia del Pentateuco o del libro di Ester o del messianismo ebraico o dell’apocalittica giudaico-cristiana.
Il quadro storico introduttivo l’ha dato con grande chiarezza Antonio Panaino il quale ha sottolineato anzitutto che Iran e Persia non sono affatto sinonimi perché con il primo termine si fa riferimento a culture e tradizioni linguistiche, religiose, storiche che coinvolgono tutte le civiltà e i popoli dell’area iranica, mentre il secondo va limitato ad una sola regione, il Parsa delle iscrizioni achemenidi o la Perside dei Greci. In ogni caso, è con l’ascesa degli Achemenidi che si crea l’impero persiano, primo grande impero sovranazionale del mondo antico, sostenuto da molte etnie iraniche e distrutto da Alessandro Magno che conclude l’epopea greca delle “guerre persiane”; ed è l’impero achemenide ad esercitare un forte impatto sul mondo ebraico, a partire da Ciro, l’unto del Signore.
L’altro ha invece riguardato il rapporto che si istituisce in epoca volgare, nel periodo sasanide, tra l’eredità dell’antica religione di Zoroastro e manicheismo, ebraismo, cristianesimo - da cui deriva la  chiesa duofisita o nestoriana di Persia e soprattutto in riferimento al modo in cui è percepito e vissuto il dualismo affermato dal mazdeismo. D’altra parte - ha sottolineato Panaino - “l’ecumene iranica si pone oggettivamente nel panorama geografico del mondo antico e tardo antico per elezione come uno dei luoghi di intermediazione culturale, aperto agli influssi occidentali, indiani e centrasiatici, ma a sua volta capace, attraverso sintesi originali, di riesportare nuove elaborazioni religiose, artistiche o scientifiche. In modo particolare, dopo la caduta dell’impero sasanide, la cultura arabo-islamica non solo sussumerà notevoli apporti della tradizione iranica, ma, nonostante le inevitabili cesure ed i pesanti scompaginamenti del tessuto preesistente, farà da veicolo di diffusione di una parte cospicua di tale patrimonio”. Se il discorso di Panaino è rivolto al dopo, alla frattura che sembra rappresentare l’irruzione islamica, al prima si è rivolto Giovanni Pettinato, in una divertente e fine rassegna del politeismo mesopotamico in una visione sicuramente meno conflittuale del mondo rispetto alla riscrittura di Ahura Mazda, antica divinità iranica, da parte di Zoroastro.
A sua volta, dal mondo mesopotamico deriva agli Achemenidi l’idea della regalità che essi sanno sviluppare secondo una politica di tolleranza che favorisce la governabilità di un impero dalle tante etnie e con una lingua franca, l’aramaico; una tolleranza che porta alla ricostruzione del Tempio e  che si tramanda come valore positivo anche più tardi, nella letteratura talmudica che vive il mondo iranico come alterità possibile.
Dal periodo achemenide in avanti deriva anche la conclusione, più che la nascita - ha detto Daniele Garrone - del Pentateuco come confluenza di diverse tradizioni, per quanto resti aperto il problema del perché la redazione non sia avvenuta in aramaico: se una linea critica mantiene la fonte Jahvista con datazione tarda, una recente linea critica infatti considera il Pentateuco quale risultato di due tradizioni quasi coeve, la Deuteronimista, riconducibile ad ambienti laici di piccoli proprietari indipendenti, che disegna una storia d’Israele segnata da interventi di Dio e la Sacerdotale che ha creato cielo e terra; nella loro diversità, esse concorrono a rispondere alle domande sull’identità di Israele.
L’achemenide Ciro è l’unto del Signore: questa unzione, considerata nel contesto della profezia come nei testi classici della letteratura rabbinica, ha detto Benedetto Carucci Viterbi, inaugura una funzione specifica perché il Messia in senso proprio è una persona che attraverso l’unzione assume una funzione. Una regalità sentita come universalità necessaria al potere ma fortemente connessa alla potenza divina: il legame stabilito dalla tradizione tra Ciro e Dio si fonda infatti su un potere che viene da Dio, ma pure sul riconoscimento di Ciro della signoria di Dio. Dalla notte dell’esilio si esce nell’alba della redenzione e perciò, secondo la tradizione rabbinica, la voce dell’amato del Cantico è la voce di Ciro che invita al ritorno in Israele. Dunque a Ciro, era affidata la funzione di riunire dalla dispersione, ma non l’ha fatto e per questo provoca la lamentela di Dio contro l’unto-Messia. In ogni caso il libro di Esdra e di Neemia, come pure quello di Ester, concordano nel dare una visione positiva dell’impero persiano.
A Ester “la nascosta” e al  “teatro della memoria” che per Marinella Perroni rappresenta la Megillah, si ispira il gioco del rovescio consentito  dalla festa di Purim e dal teatro che ne deriva: così, con il contributo del Comune di Lucca, al Teatro del Giglio è andata in scena la prima di Purimspiel!, adattamento di Enrico Fink di Di Megile di Itzik Manger, scritto nel 1936 ( trasferendo la trama biblica nella Polonia di quegli anni). Recitato dallo stesso Fink e da Monica Demuru, con musiche di Dov Seltzer suonate dai Lokshen (Amit Arieli, Stefano Bartolini, Alessandro Francolini), lo spettacolo è stato giovane e divertente.
Anche nella letteratura apocalittica ebraica è però ravvisabile un chiaro influsso della cultura persiana e di questo ha parlato Piero Capelli, partendo da Daniele (7-12), primo tentativo ebraico di pensare la storia in termini mitico-simbolici,  e dal Libro dei sogni di Enoch, contemporaneo di Daniele e della  ribellione dei Maccabei ai Seleucidi. Nel sogno di Nabucodonosor, poi, la visione della statua che allude alla successione di quattro regni (Assiria, Media, Persia, Roma), ripete una scansione radicata nel pensiero persiano e testimoniata dall’Avesta, ed è una scansione che ritorna negli Oracoli sibillini della diaspora egiziana del 79 e.v.ca. Origine iranica, ma sviluppo indipendente pur nell’affinità con le forme più antiche del dualismo zoroastriano e mazdaico - rivela anche il Rotolo della guerra di Qumran nella descrizione dell’ultima battaglia tra i Figli della luce e i Figli delle tenebre, guidati da spiriti avversari, sottomessi al Dio supremo: sono i due gemelli di Ahura Mazda, espressione della Verità e della Menzogna, poli di un dualismo eminentemente etico che esalta in Zoroastro l’importanza primordiale della scelta.
Sulle origini peraltro di questa stessa escatologia mazdaica le ipotesi sono molteplici: si fanno risalire ad un’origine babilonese; ad un’origine persiana; sono messi in relazione con la concezione classica greca delle origini - testimoniata da Esiodo - evidente nella successione delle età e dei metalli, forse attraverso la mediazione degli imperi ellenistici. Non si può nemmeno scartare l’ipotesi che almeno nella parte tardo-antica il luogo di elaborazione sia Israele.
Di queste compresenze e tradizioni alternative o parallele all’apocalittica giudaica esilica e postesilica  nel mondo mesopotamico-iranico ha poi parlato Aldo Magris, chiarendo anzitutto che, in quanto esperienza del male o esperienza della “mescolanza” essa non è concetto biblico, ma di matrice iranica; inoltre essa non parla in codice, ma allude piuttosto ad una conoscenza segreta, rivolta al visionario/viaggiatore che riceve l’annuncio del segreto. I gruppi apocalittici non entrano in conflitto con la Torà, pur avendo regole diverse (per esempio, erano vegetariani e usavano un calendario solare), ma devono trovare soluzioni ingegnose per evitare il conflitto: da qui nasce l’idea di una “seconda Torà”, di una tradizione segreta consegnata da Mosè ai 70 anziani. In un gruppo esoterico di questo tipo cresce Mani (216-277); egli vuole porsi sulla linea dei “rivelatori”, da Adamo a Paolo - che egli mostra di conoscere - attraverso il “rapimento in cielo”: nella “visione” di un angelo attesta se stesso come angelo, nella sua forma eterna. Come Paolo, è missionario e viaggiatore e va anche in India ed elementi buddhisti si ritrovano nel suo pensiero, per quanto egli rifiuti l’idea del vuoto; tracce del suo passaggio rimangono infatti nell’Asia centrale, ma intrise di elementi buddhisti.
Mani non guarda però all’oriente, ma all’occidente dicendo che “vuole andare dai greci” e greche, nel contesto del regno partico, sono la Siria, la Palestina, l’Anatolia romana; e nel suo volgersi all’occidente, ci porta verso altri “popoli della Bibbia”:  li incontreremo nel prossimo seminario...
Laura Novati
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