3. MODERNI (XV - XIX secoli)


L UTERO (Eisleben 1483 - ivi 1546)

Tutto è ineffabile e insondabile: il donatore e il suo amore abissale, che vuole solo essere accolto. Questo amore è stato mandato nel mondo che è davvero nemico di Dio, affinché non andiamo perduti ma abbiamo vita eterna. Sono parole d’oro. Chi le può intendere deve saltare di gioia.

Giovanni 3,16: Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna.

Questo è uno dei più splendidi evangeli del Nuovo Testamento. Se fosse possibile, sarebbe giusto nel cuore con lettere d’oro, e ogni cristiano dovrebbe considerare il fatto che queste parole gli sono state affidate in tutto e per tutto, ed egli dovrebbe almeno una volta al giorno pronunciarle nel suo cuore, così da poterle imparare bene a memoria. Si tratta infatti di parole che possono fare di una persona triste una persona lieta, di una persona morta una persona di nuovo viva, se soltanto vengono fermamente credute.

Non possiamo esplorare ogni cosa, vogliamo però parlarne a voce alta e pregare che lo Spirito ci spieghi queste parole nel cuore e le renda così luminose e ardenti che il cuore le accolga. E’ un Evangelo ricco e pieno di consolazione. “Dio ha tanto amato il mondo”, e precisamente così tanto “da dare il suo Figlio unigenito” affinché il mondo non muoia ma abbia vita eterna. E’ come se volesse dire: Voglio porre davanti ai vostri occhi un dipinto, nel quale colui che dona, colui che riceve il dono, il dono stesso, il frutto e l’utilità del dono sono così grandi che non è possibile tradurlo in parole. Non c’è donatore più grande. Non dice: l’imperatore ha dato, ma Dio, che non può essere compreso e ha creato tutte le cose. Dio è al disopra di tutto, e tutte le creature, paragonate a lui, sono come un granellino di sabbia rispetto a cielo e terra. Quando si ode il nome ‘Dio’, bisogna pensare che tutti i re e gli imperatori, con i loro doni e le loro persone, rispetto a Dio non sono un bel nulla. Tanto in alto dev’essere posto il donatore!

In secondo luogo: Dio dà in modo che supera tutte le misure. Dà ciò che dà non come ricompensa, o perché egli debba dare, , ma per amore: “Dio ha tanto amato il mondo”. Egli è un donatore che dà di cuore: il dono scaturisce da un amore divino e senza fondo. Non c’è in verità né presso Dio né presso gli uomini virtù più grande che l’amore. Infatti per ciò che si ama, si offre il corpo e la vita. A colui che amo, do completamente me stesso così da appartenergli; ciò di cui egli ha bisogno, mi trova pronto a darglielo. Così il nostro Signore Dio dà non solo per longanimità o perché lo esiga il diritto, ma per quella suprema virtù che è l’amore. Qui allora il cuore deve destarsi in modo che, cacciata ogni tristezza, l’amore abissale del cuore di Dio sia posto davanti agli occhi nostri e si veda che Dio è il sommo Donatore e dà in modo che il dono sgorghi dalla virtù suprema [che è l’amore]. E’ questo che rende il dono magnifico: la sua provenienza dall’amore. Se il dono è fatto con cuore, io dico:Questo mi è caro, perché proviene da una mano amica’. Non si apprezza tanto il dono quanto il cuore. Questo dà al dono un grande peso. Se Dio mi avesse dato solo un occhio, solo un piede o una mano. Ed io sapessi che ha dato questo per amore divino e paterno, allora dovrei dire:Quest’unico occhio mi è più caro di mille occhi’. Così il cuore dal quale sgorga il dono è grande e il Donatore è grande anche lui.

In terzo luogo: anche il dono è ineffabile. Infatti, che cosa dà Dio ? “Il suo Figlio unigenito”. Cioè non una moneta, un occhio, un cavallo, una mucca, un regno, e neppure il cielo con il sole e le stelle, e neppure l’intera creazione, ma il suo Figlio, che è grande quanto lui.. Questo dovrebbe accendere una luce purissima, anzi un fuoco nel nostro cuore e noi dovremmo sempre danzare di gioia. Come il Donatore è infinito e ineffabile, così è anche il dono. Se Dio dà suo Figlio, che cosa tiene ancora per sé ? Con lui, egli dà se stesso, come dice Paolo in Romani 8,32. Avendo dato il Figlio, ci ha anche regalato ogni cosa con lui. Tutto dev’essere dato con il Figlio, che si chiami diavolo, morte, vita, inferno, paradiso, peccato, giustizia, ingiustizia, tutto dev’essere nostro perché il Figlio ci è dato nel quale tutte le cose sono racchiuse. Tutto è racchiuso in Cristo. Che dono ! Che dono per me ! Lo puoi ben dire tu stesso, se appena ci rifletti un po’ ! Che cosa sono oro, argento e la gloria del mondo in confronto a questo tesoro ?

Ancora una cosa: il fatto che Dio considera il dono non come ricompensa o come merito ma veramente come regalo significa che esso non dev’essere prestato né preso in prestito né pagato. Non bisogna dare nulla in cambio, ma non si deve fare altro che stendere la mano – e che Dio abbia misericordia, perché le mani e il cuore non sono inclini a ricevere un simile dono. Dio non vuole solo farti vedere il dono da lontano, ma deve diventare tuo. Afferralo ! Pensa a coloro di cui si dice che non è possibile dare nulla a una persona contro la sua volontà.. Poniamo il caso di un principe benevolo che a un mendicante che non ha nulla di cui vivere e di cui vestirsi offra in regalo un castello che gli renderebbe mille fiorini all’anno. Se questi rispondesse:Non voglio averlo’, la gente direbbe: ‘Non ho mai visto né udito di una persona più pazza; non può trattarsi di un uomo !’ Così direbbe la gente. Ma qui non è un castello che viene dato, ma il Figlio di Dio. Tendi dunque la tua mano e prendi ! Non dobbiamo essere altro che questo: persone con le mani aperte per ricevere ! Ma proprio questo non vogliamo essere. Considera dunque quale grande peccato sia l’incredulità ! Non è più neppure umano chiudersi così nei confronti del Signore. Potete chiaramente vedere da questo che il mondo intero è pazzo, stolto e posseduto dal diavolo, perciò non si rallegra di questo dono, non vuole essere solo uno che riceve. Se fossero fiorini, sì che si rallegrerebbe, ma non per il Figlio di Dio. Così posseduto è il mondo ! Eppure [Gesù Cristo] è molto semplicemente un dono e nient’altro. Per averlo non dobbiamo né servire né pagare.

(Da una predica di Martin Lutero del 25 marzo 1534 [WA 37,409 ss], tradotta da Paolo Ricca)


T ERESA D'AVILA (Avila 1515 - Alba de Tormes 1582)

PER QUAL MOTIVO NON SI ARRIVI, IN BREVE TEMPO,

AD AMAR PERFETTAMENTE IDDIO

Parlando ora di quelli che cominciano a essere servi dell'amore (ché in ciò mi par che consista il risolverci a seguire per via dell'orazione Chi tanto ci amò), devo dire che è una cosa talmente sublime che godo straordinariamente a pensarci. Se in questo primo stadio procediamo come dobbiamo procedere, il timore servile se ne va immantinente. Oh, Signore dell'anima mia e mio bene, perché non volete che un'anima, che si sia decisa ad amarvi e abbia fatto tutto quanto è in lei per staccarsi da ogni cosa, onde meglio adoperarsi in quest'amore per Voi, non goda subito del possesso, di tale perfetto amore? Ma ho detto male. Dovevo dire invece, e levarne gran lamento: perché non vogliamo noi? La colpa, infatti, è tutta nostra se non godiamo subito di uno stato così sublime, perché questo vero amor di Dio, conseguito che lo avessimo perfettamente, trarrebbe con sé ogni altro bene. Ma siamo così avari e pigri nel darci interamente a Dio che, non volendo Sua Maestà che godiamo di una cosa così preziosa senza pagarla a caro prezzo, non ci troviamo mai nelle condizioni convenienti per riceverla. È ben vero, e me ne rendo conto, che non c'è nulla, in terra, con cui si possa comprare un tanto bene; ma se facessimo tutto quel che possiamo per non attaccarci a cosa di questo mondo, curandoci invece soltanto di quelle del cielo, io credo senza alcun dubbio che in brevissimo tempo quel tesoro diverrebbe nostro, a patto - ripeto - che ci mettessimo tosto nelle condizioni volute, come fecero alcuni santi.

(S. Teresa d'Avila, Vita, BUR, Milano 1962, pp. 75-76)

L'ESTASI

Vedevo vicino a me, al lato sinistro, un angelo in forma corporea. [...] Quel Cherubino teneva in mano un lungo dardo d'oro sulla cui punta di ferro sembrava aver un po' di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più ripsrese nel cuore, cacciandomelo dentro fino alle viscere [...]. Lo spasimo della ferita era così vivo che mi faceva uscire dei gemiti, ma insieme pure tanto dolce da impedirmi di desiderarne la fine e di cercare altro diversivo fuori che in Dio. Benché non sia un dolore fisico ma spirituale, vi partecipa un poco anche il corpo, anzi molto. Allora tra l'anima e Dio passa come un soavissimo idillio. E io prego la divina bontà di farne parte a coloro che non mi credessero.

(S.Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13, in Storia dei Santi e della santità cristiana, a cura di J.Delumeau, Grolier Hachette International, 1991, vol. VIII, p. 262)

G IOVANNI DELLA CROCE (Fontiveros 1542 - Ubeda 1591)

STROFE

in cui l'anima canta la sorte felice che ebbe di passare attraverso la notte oscura della fede per giungere, spogliata e purificata, all'unione con l'Amato.

1 ‑ In una notte oscura,

con ansie, in amori infiammata,

‑ ohi felice ventura! -

uscii, né fui notata,

stando già la mia casa addormentata.

2 - Al buio uscii e sicura,

per la segreta scala, travestita,

‑ oh felice ventura! -

al buio e ben celata,

stando già la mia casa addormentata.

3 ‑ Nella felice notte,

segretamente, senza esser veduta,

senza nulla guardare,

senza altra guida o luce

fuor di quella che in cuore mi riluce.

4 ‑ Questa mi conduceva,

più sicura che il sol del mezzogiorno,

dove mi attendeva

Chi bene io conosceva

e dove nessun altro si vedeva.

5 ‑ Notte che mi hai guidato!

0 notte amabil più dei primi albori!

0 notte che hai congiunto

l'Amato con l'amata,

l'amata nell'Amato trasformata!


6 ‑ Sul mio petto fiorito,

che intatto per lui solo avea serbato,

Ei posò addormentato,

mentre io lo vezzeggiava

e la chioma dei cedri il ventilava.

7 ‑ Degli alti merli l'aura,

quando i suoi capelli io discioglievo,

con la sua man leggera

il mio collo feriva

e tutti i sensi miei in sé rapiva.

8 ‑ Giacqui e mi obliai,

il volto sul Diletto reclinato;

tutto cessò, e posai,

ogni pensier lasciato

in mezzo ai gigli perdersi obliato.

(Giovanni della Croce, Opere, Tipografia Vaticana, Roma 1967, pp. 7-8)

P ESTALOZZI (Zurigo 1746 - Brugg 1827)

«So a chi credo. La mia fede in Dio perde ogni limite mediante la conoscenza di me stesso e grazie alla conoscenza derivata da questa, delle leggi del mondo morale. Il concetto dell'infinito si intreccia nella mia natura con il concetto dell'eterno e io sento nascere in me la speranza di una vita eterna. E quanto più amo l'Eterno, tanto più spero in una vita eterna: e quanto maggiore è la mia fede in Lui, quanto più gli sono grato, quanto più Lo seguo, tanto più vera diventa per me la convinzione della mia immortalità» (Johann Heinrich Pestalozzi, Come Geltrude istruisce i suoi figli, 1801). L'opera del grande pedagogista è stata riassunta in questa proposizione: «Pestalozzi fu sempre sostenuto da una profonda coscienza della propria vocazione e della "certezza che tutte le sfere dell'esistenza gravitano eternamente intorno all'amore e che l'amore gravita intorno a Dio"».

(Emidio Campi - Massimo Rubboli, Protestantsimo nei secoli. Fonti e documenti. Il Settecento, Claudiana, Torino 1997, p. 237)

L EONE EBREO (Lisbona 1460 - Italia 1523)

DIALOGHI D'AMORE

«Filone: ... l'amante si converte e trasforma ne la persona amata: onde dirotti che i beni di quella son più veramente suoi che li propri suoi, e più veramente suoi che di quella, se la persona amata ama reciprocamente l'amante, perché allora il ben d'ognun di loro è proprio dell'altro e alieno da se stesso ... » (p. 222).

«Filone: ... il difetto della cosa operata induce ombra di difetto nell'artefice, ma solo ne la relazione operativa che ha con la cosa operata; in questo modo si può dire che Iddio, amando la perfezione di sue creature, ama la perfezione relativa di sua operazione, ne la quale il difetto de la cosa operata indurria ombra di difetto, e la perfezione di quella ratificaria la perfezione relativa di sua divina operazione. Onde gli antichi dicono che l'uomo giusto fa perfetto il splendore de la divinità e l'iniquo il macula; sì che ti concederò che, amando Iddio la perfezione [di sue creature] ama la perfezione di sua divina azione: e il mancamento che gli presupponi non è ne la sua essenzia, ma ne l'ombra de la relazione del creatore a le creature, che, possendo essere maculato per difetto di sue creature desidera sua immaculata perfezione mediante la desiderata perfezione di sue creature. Dio non desidera sua unione con le creature, come fanno gli altri amanti con le persone amate, ma desidera l'unione de le creature con la sua divinità, acciò [che] pur la loro perfezione con tale unione sia sempre perfetta, e immaculata l'operazione di esso creatore relata alle sue creature ... » (p. 223).

«Filone: ... l'amante precede a l'amore come l'agente a l'atto e così il primo amante bisogna che preceda e causi il primo amore.

Sofia: Par buona ragione che l'amante debba precedere a l'amore, ché amando il produce: onde la persona può stare senza amore, e non può l'amore senza persona...

Filone:... è il contrario, che l'amato è causa agente, generante l'amore ne l'animo de l'amante, e l'amante è recipiente de l'amore de l'amato; di modo che l'amato è il vero padre d'amore, che genera ne l'amante, che è la madre che parturisce l'amore ... » (pp. 228‑229).

Lo stesso autore, con riferimento al Cantico dei Cantici (che egli legge in chiave allegorica), afferma:

« ... Salamone e gli altri teologi mosaici tengono che 'l mondo sia prodotto a modo di figlio dal sommo bello come padre e da essa somma sapienzia, vera bellezza, come madre; e dicono che, la somma sapienzia innamorata del sommo bello come femmina del perfettissimo maschio, e il sommo bello reciprocando l'amore in lei, essa s'ingravida della somma potestà del sommo bello e parturisce il bello universo, loro figlio, con tutte sue parti. E questa è la significazione de l'innamoramento che Salamone dice ne la Cantica, de la sua compagna col bellissimo amato, e perché egli ha prima e più ragion d'amato in lei, per esser suo principio e producente, che ella in lui per essere prodotta e inferiore a quello ...» (pp. 355‑356).

(Leone Ebreo, Dialoghi d'amore; brani citati in: Amos Luzzatto, Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, Giuntina, Firenze 1997, nota 20 pp. 31-32)


G LUECKEL DI HAMELN (mercantessa ebrea tedesca, Amburgo 1645 - Metz 1724)

Che i genitori amino i figli non è stupefacente: fanno lo stesso le creature prive di ragione che si occupano dei propri figli finché non diventano grandi e possono nutrirsi da soli.

Non c'è niente di peggio che dover piangere i propri figli come ha fatto nostra madre Rachele: "Sono colui che ha visto la miseria" (Lam 3,1). Non c'è niente di peggio che morire senza discendenza. Secondo me, Abramo avrebbe sofferto meno se il Signore gli avesse comandato di uccidere se stesso piuttosto che di uccidere Isacco, suo unico figlio. Chi può risolversi a uccidere i propri figli? Tuttavia Abramo era pronto a farlo per il suo grande amore a Dio.

Dio può esigere tutto da noi poiché Egli tutto ci ha donato. Per voi, figli miei, non c'è niente di meglio che servire Dio con tutto il vostro cuore, senza falsità né ipocrisia e, Dio ve ne guardi!, senza farlo solo davanti agli altri per pensare poi diversamente nel fondo di voi stessi. Dovete pregare Dio con timore e raccoglimento; non dovete interrompervi durante la preghiera per parlare di cose profane. Considerate un grande peccato quello di chiacchierare quando si prega il Creatore dell'universo. Forse il buon Dio dovrebbe attendere che gli uomini finiscano di parlare fra di loro?

(Memorie di Glückel Hameln, Giuntina, Firenze 1984, pp. 3-4)


C HASSIDISMO (Movimento mistico popolare nell'ebraismo orientale del XVIII secolo)

ALCUNI BREVI RACCONTI

Una volta lo spirito del Ba'al Shem Tov era così abbattuto che gli sembrava di non aver parte al mondo futuro. Allora disse a se stesso: «Se amo Dio, che bisogno ho di un mondo futuro?» (p. 96).

Uno scolaro chiese al Baal Shem [nome dato a Israel ben Eliezer, fondatore del movimento chassidico]: «Come avviene che uno che ama Dio e sa di essergli vicino, provi talvolta una interruzione e una lontananza?»

Il Baal Shem spiegò: «Quando un padre vuole insegnare a camminare al suo figlioletto, lo pone prima davanti a sé e gli tiene le mani vicine, ai lati, perché non cada, e così il bambino avanza verso il padre tra le mani del padre. Ma quando è arrivato al padre, questi si allontana un poco e tiene le mani più discoste, perché il bambino impari a camminare» (p. 108).

Quando Rabbi Baruch arrivava alle parole del salmo: «Non darò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre fino a che non abbia trovato una dimora a Dio», si fermava e diceva a se stesso: «fino a che non trovo me stesso e faccio di me una dimora pronta ad accogliere la Shekhinà (in ebraico: presenza immanente di Dio)» (p. 131).

Gli scolari chiesero al Magghid di ZIoczow: «Nel Talmud è detto che nostro padre Abramo ha adempiuto a tutta la legge. Com'è possibile, poiché essa non era ancora stata data?» «Non v'è bisogno» rispose il maestro «che di amare Dio. Se vuoi fare qualcosa e ti accorgi che potrebbe diminuire il tuo amore, sappi che è peccato; se vuoi fare qualcosa e ti accorgi che accrescerà il tuo amore, sappi che la tua volontà è conforme alla volontà di Dio. Così faceva Abramo» (p. 193).

Una volta, alla fine del Giorno del Perdono, Rabbi Shlomo, che era di buon umore, disse che avrebbe rivelato che cosa ciascuno degli scolari aveva chiesto al cielo in quei santi giorni e quale era stata la risposta. Al primo degli scolari che si fece avanti, disse: «La tua preghiera è stata che a suo tempo Dio ti conceda di guadagnarti il pane senza travaglio, perché tu non venga ostacolato nel servizio di Dio. E la risposta è che ciò che Dio veramente desidera ricevere da te non è la tua preghiera e il tuo studio, ma appunto quel sospiro del tuo cuore desolato, perché il travaglio di guadagnarti da vivere ti impedisce di servire Dio» (p. 325).

(Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano1985)


J AMI (poeta mistico morto nel 1492)

Gli occhi del Diletto, vedendo ciò che non c'era,

contemplarono il non esistente come esistente.

Pur contemplando nella propria essenza i suoi attributi

e le sue qualità in tutta la loro perfezione,

volle però che in un altro specchio

attributi e qualità fossero offerti alla sua vista,

e che ognuno dei suoi attributi eterni

in altra forma fosse manifestato.

Creò per questo i campi verdeggianti del tempo e dello spazio

e il giardino di questo mondo che dà vita,

affinché ogni ramo, ogni foglia e ogni frutto

testimoniassero le sue diverse perfezioni.

Il cipresso suggerì l'idea della sua nobile statura,

la rosa quello del suo apsetto pieno di grazia,...

Ogni volta che apparve la bellezza,

insieme ad essa si presentò l'amore;

ogni volta che la bellezza brillò in ua guancia color rosa,

a tale fiamma accese la propria fiaccola l'amore.

Ogni volta che la bellezza apparve in una chioma nera,

venne l'amore e trovò un cuore prigioniero delle sue catene.

Bellezza e amore sono come corpo e anima:

la bellezza è miniera e l'amor pietra preziosa

sempre fin dalle origini sono state insieme.

(Cherubino Mario Guzzetti, Islam in preghiera, Editrice Elle Di Ci, Leumann, Torino 1991, p. 164)


A BD AL-QADIR (Emiro algerino, 1808-1883)

L'Amato mi è apparso laddove non è possibile vedere.

Meraviglia!

Tramite Lui Lo contemplo ove non si può vedere.

Tramite Lui è la mia assenza,

non c’è più chi vegli.

Il velo dell’intervallo è scomparso, il dubbio è svanito.

Da allora, L’ho visto in ogni momento,

ad ogni istante,

Lui che prima era ora assente ora presente.

Mi ha travolto: impossibile sarebbe

pretendere ancora d’ignorarLo:

estrema era la Sua vicinanza a me,

era il mio udito e la mia vista.

 

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