3. MODERNI (XV -
XIX secoli)
Tutto è ineffabile e insondabile: il donatore e il suo amore
abissale, che vuole solo essere accolto. Questo amore è stato mandato nel
mondo che è davvero nemico di Dio, affinché non andiamo perduti ma abbiamo
vita eterna. Sono parole d’oro. Chi le può intendere deve saltare di gioia. Giovanni 3,16:
Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché
chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita
eterna. Questo è uno dei
più splendidi evangeli del Nuovo Testamento. Se fosse possibile, sarebbe
giusto nel cuore con lettere d’oro, e ogni cristiano dovrebbe considerare il fatto che queste parole gli sono state
affidate in tutto e per tutto, ed egli dovrebbe almeno una volta al giorno
pronunciarle nel suo cuore, così da poterle imparare bene a memoria. Si tratta infatti di parole che possono fare di una persona
triste una persona lieta, di una persona morta una persona di nuovo viva,
se soltanto vengono fermamente credute. Non possiamo esplorare
ogni cosa, vogliamo però parlarne a voce alta e pregare che lo Spirito ci
spieghi queste parole nel cuore e le renda così luminose e ardenti che il
cuore le accolga. E’ un Evangelo ricco e pieno di consolazione. “Dio ha
tanto amato il mondo”, e precisamente così tanto “da dare il suo Figlio
unigenito” affinché il mondo non muoia ma abbia vita eterna. E’ come se
volesse dire: Voglio porre davanti ai vostri occhi un dipinto, nel quale
colui che dona, colui che riceve il dono,
il dono stesso, il frutto e l’utilità del dono sono così grandi che non
è possibile tradurlo in parole. Non c’è donatore più grande. Non dice: l’imperatore
ha dato, ma Dio, che non può essere compreso e ha creato tutte le cose.
Dio è al disopra di tutto, e tutte le creature, paragonate
a lui, sono come un granellino di sabbia rispetto a cielo e terra.
Quando si ode il nome ‘Dio’, bisogna pensare che tutti i re e gli imperatori,
con i loro doni e le loro persone, rispetto a Dio non sono un bel nulla.
Tanto in alto dev’essere posto il donatore! In secondo luogo:
Dio dà in modo che supera tutte le misure. Dà ciò che dà non come ricompensa,
o perché egli debba dare, , ma per amore: “Dio
ha tanto amato il mondo”. Egli è un donatore che dà di cuore: il dono scaturisce
da un amore divino e senza fondo. Non c’è in verità né presso Dio né presso
gli uomini virtù più grande che l’amore. Infatti per ciò che si ama, si offre il corpo e la vita.
A colui che amo, do completamente me stesso così
da appartenergli; ciò di cui egli ha bisogno, mi trova pronto a darglielo.
Così il nostro Signore Dio dà non solo per longanimità
o perché lo esiga il diritto, ma per quella suprema virtù che è l’amore.
Qui allora il cuore deve destarsi in modo che, cacciata ogni tristezza, l’amore
abissale del cuore di Dio sia posto davanti agli occhi nostri e si veda
che Dio è il sommo Donatore e dà in modo che il dono sgorghi dalla virtù
suprema [che è l’amore]. E’ questo che rende il dono magnifico: la sua provenienza
dall’amore. Se il dono è fatto con cuore, io dico: ‘Questo
mi è caro, perché proviene da una mano amica’.
Non si apprezza tanto il dono quanto il cuore. Questo dà al dono un grande peso. Se Dio mi avesse dato
solo un occhio, solo un piede o una mano. Ed io sapessi che ha dato
questo per amore divino e paterno, allora dovrei dire: ‘Quest’unico occhio mi
è più caro di mille occhi’. Così il cuore dal
quale sgorga il dono è grande e il Donatore è grande anche lui. In terzo luogo:
anche il dono è ineffabile. Infatti, che cosa dà Dio
? “Il suo Figlio unigenito”. Cioè non una
moneta, un occhio, un cavallo, una mucca, un regno, e neppure il cielo con
il sole e le stelle, e neppure l’intera creazione, ma il suo Figlio, che
è grande quanto lui.. Questo dovrebbe accendere una luce purissima, anzi
un fuoco nel nostro cuore e noi dovremmo sempre danzare di gioia. Come il
Donatore è infinito e ineffabile, così è
anche il dono. Se Dio dà suo Figlio, che cosa tiene ancora per sé ? Con lui, egli dà se stesso,
come dice Paolo in Romani 8,32. Avendo dato il Figlio, ci ha anche
regalato ogni cosa con lui. Tutto dev’essere
dato con il Figlio, che si chiami diavolo, morte,
vita, inferno, paradiso, peccato, giustizia, ingiustizia, tutto dev’essere nostro perché il Figlio ci è dato nel quale
tutte le cose sono racchiuse. Tutto è racchiuso in Cristo. Che dono ! Che dono per me ! Lo
puoi ben dire tu stesso, se appena ci rifletti un po’
! Che cosa sono oro, argento e la gloria del mondo in confronto a
questo tesoro ? Ancora una cosa:
il fatto che Dio considera il dono non come ricompensa o come merito ma
veramente come regalo significa che esso non dev’essere
prestato né preso in prestito né pagato. Non bisogna dare nulla in cambio,
ma non si deve fare altro che stendere la mano – e che Dio abbia misericordia, perché le mani e il cuore non sono
inclini a ricevere un simile dono. Dio non vuole solo farti vedere il dono
da lontano, ma deve diventare tuo. Afferralo ! Pensa a coloro di cui si
dice che non è possibile dare nulla a una persona
contro la sua volontà.. Poniamo il caso di un principe benevolo che a un
mendicante che non ha nulla di cui vivere e di cui vestirsi offra in regalo
un castello che gli renderebbe mille fiorini all’anno. Se questi rispondesse: ‘Non voglio averlo’, la
gente direbbe: ‘Non ho mai visto né udito di una persona più pazza; non
può trattarsi di un uomo !’ Così direbbe la gente. Ma qui non è un castello
che viene dato, ma il Figlio di Dio. Tendi
dunque la tua mano e prendi ! Non dobbiamo essere
altro che questo: persone con le mani aperte per ricevere ! Ma proprio questo non vogliamo
essere. Considera dunque quale grande peccato sia
l’incredulità ! Non è più neppure umano chiudersi così nei confronti del
Signore. Potete chiaramente vedere da questo che il mondo intero è pazzo,
stolto e posseduto dal diavolo, perciò non si rallegra di questo dono, non
vuole essere solo uno che riceve. Se fossero fiorini,
sì che si rallegrerebbe, ma non per il Figlio di Dio. Così posseduto
è il mondo ! Eppure
[Gesù Cristo] è molto semplicemente un dono e
nient’altro. Per averlo non dobbiamo né servire né pagare. (Da una predica
di Martin Lutero del 25 marzo 1534 [WA 37,409 ss], tradotta da
Paolo Ricca)
PER QUAL MOTIVO NON SI ARRIVI, IN BREVE TEMPO, AD AMAR PERFETTAMENTE
IDDIO Parlando ora
di quelli che cominciano a essere servi dell'amore
(ché in ciò mi par che consista il risolverci a seguire per via dell'orazione
Chi tanto ci amò), devo dire che è una cosa talmente sublime che godo straordinariamente
a pensarci. Se in questo primo stadio procediamo
come dobbiamo procedere, il timore servile se ne va immantinente. Oh, Signore
dell'anima mia e mio bene, perché non volete che un'anima, che si sia decisa
ad amarvi e abbia fatto tutto quanto è in lei per staccarsi da ogni cosa,
onde meglio adoperarsi in quest'amore per Voi,
non goda subito del possesso, di tale perfetto amore? Ma ho detto male. Dovevo dire invece, e levarne gran
lamento: perché non vogliamo noi? La colpa, infatti, è tutta nostra se non
godiamo subito di uno stato così sublime, perché questo vero amor di Dio,
conseguito che lo avessimo perfettamente, trarrebbe
con sé ogni altro bene. Ma siamo così avari e pigri nel darci interamente
a Dio che, non volendo Sua Maestà che godiamo di
una cosa così preziosa senza pagarla a caro prezzo, non ci troviamo mai nelle
condizioni convenienti per riceverla. È ben vero, e me ne rendo conto, che
non c'è nulla, in terra, con cui si possa comprare un tanto bene; ma se facessimo
tutto quel che possiamo per non attaccarci a cosa
di questo mondo, curandoci invece soltanto di quelle del cielo, io credo
senza alcun dubbio che in brevissimo tempo quel tesoro diverrebbe nostro,
a patto - ripeto - che ci mettessimo tosto nelle condizioni volute, come
fecero alcuni santi. (S. Teresa
d'Avila, Vita, BUR, Milano 1962,
pp. 75-76) L'ESTASI Vedevo vicino
a me, al lato sinistro, un angelo in forma corporea. [...] Quel Cherubino
teneva in mano un lungo dardo d'oro sulla cui punta di ferro sembrava aver
un po' di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più ripsrese
nel cuore, cacciandomelo dentro fino alle viscere [...]. Lo spasimo della
ferita era così vivo che mi faceva uscire dei gemiti, ma insieme pure tanto
dolce da impedirmi di desiderarne la fine e di cercare altro diversivo fuori
che in Dio. Benché non sia un dolore fisico ma
spirituale, vi partecipa un poco anche il corpo, anzi molto. Allora tra l'anima
e Dio passa come un soavissimo idillio. E io prego la divina bontà di farne
parte a coloro che non mi credessero. (S.Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13,
in Storia dei Santi e della santità cristiana, a cura di
J.Delumeau, Grolier
Hachette International,
1991, vol. VIII, p. 262)
STROFE in cui l'anima canta la sorte felice
che ebbe di passare attraverso la notte oscura della fede per giungere, spogliata
e purificata, all'unione con l'Amato. 1 ‑ In una
notte oscura, con ansie, in amori infiammata, ‑ ohi felice
ventura! - uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata. 2 -
Al buio uscii e sicura, per la segreta
scala, travestita, ‑ oh felice
ventura! - al buio e ben
celata, stando già
la mia casa addormentata. 3 ‑ Nella felice
notte, segretamente, senza esser veduta, senza nulla guardare, senza altra guida o luce fuor di quella che in cuore mi riluce. 4 ‑ Questa
mi conduceva, più sicura che il sol del mezzogiorno,
là dove mi attendeva Chi bene io
conosceva e dove nessun altro si vedeva. 5 ‑ Notte che mi hai guidato! 0 notte amabil
più dei primi albori! 0 notte che hai congiunto l'Amato con l'amata, l'amata nell'Amato trasformata! 6 ‑ Sul mio
petto fiorito, che intatto per lui solo avea serbato, Ei posò addormentato,
mentre io lo vezzeggiava e la chioma dei cedri il ventilava. 7 ‑ Degli alti
merli l'aura, quando i suoi capelli io discioglievo, con la sua man leggera il mio collo feriva e tutti i sensi miei in sé rapiva. 8 ‑ Giacqui
e mi obliai, il volto sul Diletto reclinato; tutto cessò, e posai, ogni pensier
lasciato in mezzo ai gigli perdersi obliato. (Giovanni della
Croce, Opere, Tipografia Vaticana, Roma 1967, pp. 7-8)
«So a chi credo.
La mia fede in Dio perde ogni limite mediante la conoscenza di me stesso
e grazie alla conoscenza derivata da questa, delle leggi del mondo morale.
Il concetto dell'infinito si intreccia nella
mia natura con il concetto dell'eterno e io sento nascere in me la speranza
di una vita eterna. E quanto più amo l'Eterno,
tanto più spero in una vita eterna: e quanto maggiore è la mia fede in Lui,
quanto più gli sono grato, quanto più Lo seguo, tanto più vera diventa per
me la convinzione della mia immortalità» (Johann
Heinrich Pestalozzi,
Come Geltrude istruisce i suoi figli, 1801). L'opera
del grande pedagogista è stata riassunta in questa
proposizione: «Pestalozzi fu sempre sostenuto
da una profonda coscienza della propria vocazione e della "certezza che
tutte le sfere dell'esistenza gravitano eternamente intorno all'amore e
che l'amore gravita intorno a Dio"». (Emidio Campi
- Massimo Rubboli, Protestantsimo nei secoli. Fonti e documenti.
Il Settecento, Claudiana, Torino 1997, p. 237)
DIALOGHI D'AMORE «Filone: ...
l'amante si converte e trasforma ne la persona
amata: onde dirotti che i beni di quella son più
veramente suoi che li propri suoi, e più veramente suoi che di quella, se
la persona amata ama reciprocamente l'amante, perché allora il ben d'ognun
di loro è proprio dell'altro e alieno da se stesso ... » (p. 222). «Filone: ...
il difetto della cosa operata induce ombra di difetto nell'artefice, ma solo
ne la relazione operativa
che ha con la cosa operata; in questo modo si può dire che
Iddio, amando la perfezione di sue creature, ama la perfezione relativa di
sua operazione, ne la quale il difetto de la cosa operata indurria ombra di difetto, e la perfezione di quella
ratificaria la perfezione relativa di
sua divina operazione. Onde gli antichi dicono che l'uomo giusto fa perfetto
il splendore de la divinità e l'iniquo il
macula; sì che ti concederò che, amando Iddio la perfezione [di sue creature]
ama la perfezione di sua divina azione: e il mancamento che gli presupponi
non è ne la sua essenzia, ma ne l'ombra de la
relazione del creatore a le creature, che, possendo
essere maculato per difetto di sue creature desidera sua immaculata perfezione mediante la desiderata perfezione
di sue creature. Dio non desidera sua unione con le creature, come fanno
gli altri amanti con le persone amate, ma desidera l'unione de le creature
con la sua divinità, acciò [che] pur la loro
perfezione con tale unione sia sempre perfetta,
e immaculata l'operazione di esso creatore
relata alle sue creature ... » (p. 223). «Filone: ...
l'amante precede a l'amore come l'agente a l'atto
e così il primo amante bisogna che preceda e causi il primo amore. Sofia: Par
buona ragione che l'amante debba precedere a l'amore,
ché amando il produce: onde la persona può stare senza amore, e non può l'amore
senza persona... Filone:...
è il contrario, che l'amato è causa agente, generante l'amore ne l'animo de l'amante, e l'amante è recipiente de l'amore
de l'amato; di modo che l'amato è il vero padre d'amore, che genera ne l'amante,
che è la madre che parturisce l'amore ... » (pp.
228‑229). Lo stesso autore,
con riferimento al Cantico dei Cantici (che egli legge in chiave allegorica),
afferma: « ... Salamone e gli altri teologi mosaici tengono che 'l mondo sia prodotto a modo di figlio dal sommo bello
come padre e da essa somma sapienzia, vera
bellezza, come madre; e dicono che, la somma sapienzia
innamorata del sommo bello come femmina del perfettissimo
maschio, e il sommo bello reciprocando l'amore in lei, essa s'ingravida della
somma potestà del sommo bello e parturisce il
bello universo, loro figlio, con tutte sue parti. E questa è la significazione
de l'innamoramento che Salamone dice ne la Cantica, de la sua compagna col bellissimo amato,
e perché egli ha prima e più ragion d'amato in lei, per esser suo principio
e producente, che ella in lui per essere prodotta
e inferiore a quello ...» (pp. 355‑356). (Leone Ebreo,
Dialoghi d'amore; brani citati in: Amos Luzzatto, Una lettura ebraica del
Cantico dei Cantici, Giuntina, Firenze 1997,
nota 20 pp. 31-32)
Che i genitori amino i figli non è
stupefacente: fanno lo stesso le creature prive di ragione che si occupano
dei propri figli finché non diventano grandi e possono nutrirsi da soli.
Non c'è niente
di peggio che dover piangere i propri figli come ha fatto nostra madre Rachele:
"Sono colui che ha visto la miseria" (Lam 3,1). Non c'è niente di peggio che morire senza
discendenza. Secondo me, Abramo avrebbe sofferto meno se il Signore gli
avesse comandato di uccidere se stesso piuttosto che di uccidere Isacco,
suo unico figlio. Chi può risolversi a uccidere
i propri figli? Tuttavia Abramo era pronto a
farlo per il suo grande amore a Dio. Dio può esigere
tutto da noi poiché Egli tutto ci ha donato. Per voi, figli miei, non c'è
niente di meglio che servire Dio con tutto il vostro cuore, senza falsità
né ipocrisia e, Dio ve ne guardi!, senza farlo
solo davanti agli altri per pensare poi diversamente nel fondo di voi stessi.
Dovete pregare Dio con timore e raccoglimento; non dovete interrompervi durante
la preghiera per parlare di cose profane. Considerate un grande peccato quello di chiacchierare quando si prega
il Creatore dell'universo. Forse il buon Dio dovrebbe attendere che gli uomini
finiscano di parlare fra di loro? (Memorie di Glückel Hameln, Giuntina, Firenze
1984, pp. 3-4)
ALCUNI BREVI
RACCONTI Una volta lo
spirito del Ba'al
Shem Tov era
così abbattuto che gli sembrava di non aver parte al mondo futuro. Allora
disse a se stesso: «Se amo Dio, che bisogno ho
di un mondo futuro?» (p. 96). Uno scolaro
chiese al Baal Shem
[nome dato a Israel ben Eliezer,
fondatore del movimento chassidico]: «Come avviene
che uno che ama Dio e sa di essergli vicino, provi talvolta una interruzione e una lontananza?» Il Baal Shem spiegò:
«Quando un padre vuole insegnare a camminare al
suo figlioletto, lo pone prima davanti a sé e gli tiene le mani vicine, ai
lati, perché non cada, e così il bambino avanza verso il padre tra le mani
del padre. Ma quando è arrivato al padre, questi
si allontana un poco e tiene le mani più discoste, perché il bambino impari
a camminare» (p. 108). Quando Rabbi Baruch
arrivava alle parole del salmo: «Non darò sonno ai miei occhi né riposo
alle mie palpebre fino a che non abbia trovato
una dimora a Dio», si fermava e diceva a se stesso: «fino a che non trovo
me stesso e faccio di me una dimora pronta ad accogliere la Shekhinà (in ebraico: presenza immanente
di Dio)» (p. 131). Gli scolari
chiesero al Magghid di ZIoczow: «Nel Talmud è detto che nostro padre
Abramo ha adempiuto a tutta la legge. Com'è possibile,
poiché essa non era ancora stata data?» «Non
v'è bisogno» rispose il maestro «che di amare Dio. Se vuoi fare qualcosa
e ti accorgi che potrebbe diminuire il
tuo amore, sappi che è peccato; se vuoi fare qualcosa e ti accorgi che accrescerà
il tuo amore, sappi che la tua volontà è conforme alla volontà di Dio. Così
faceva Abramo» (p. 193). Una volta,
alla fine del Giorno del Perdono, Rabbi Shlomo,
che era di buon umore, disse che avrebbe rivelato che cosa ciascuno degli
scolari aveva chiesto al cielo in quei santi giorni e quale era stata la risposta.
Al primo degli scolari che si fece avanti, disse: «La tua preghiera è stata
che a suo tempo Dio ti conceda di guadagnarti il
pane senza travaglio, perché tu non venga ostacolato nel servizio di Dio.
E la risposta è che ciò che Dio veramente desidera ricevere da te non è la
tua preghiera e il tuo studio, ma appunto quel sospiro del tuo cuore desolato,
perché il travaglio di guadagnarti da vivere ti impedisce
di servire Dio» (p. 325). (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti,
Milano1985)
Gli occhi del
Diletto, vedendo ciò che non c'era, contemplarono il non esistente come esistente. Pur contemplando
nella propria essenza i suoi attributi e le sue qualità in tutta la loro
perfezione, volle però che in un altro specchio attributi e qualità fossero offerti alla
sua vista, e che ognuno dei suoi attributi eterni in altra forma fosse manifestato. Creò per questo
i campi verdeggianti del tempo e dello spazio e il giardino di questo mondo che
dà vita, affinché ogni ramo, ogni foglia e ogni frutto testimoniassero le sue diverse perfezioni. Il cipresso
suggerì l'idea della sua nobile statura, la rosa quello del suo apsetto pieno di grazia,... Ogni volta
che apparve la bellezza, insieme ad essa si presentò l'amore; ogni volta che la bellezza brillò in
ua guancia color rosa, a tale fiamma accese la propria fiaccola
l'amore. Ogni volta
che la bellezza apparve in una chioma nera, venne l'amore e trovò un cuore prigioniero
delle sue catene. Bellezza e
amore sono come corpo e anima: la bellezza è miniera e l'amor pietra
preziosa sempre fin dalle origini sono state insieme. (Cherubino
Mario Guzzetti, Islam in preghiera,
Editrice Elle Di Ci, Leumann,
Torino 1991, p. 164)
L'Amato mi è apparso laddove non
è possibile vedere. Meraviglia! Tramite Lui Lo contemplo ove non
si può vedere. Tramite Lui è la mia assenza, non c’è più chi vegli. Il velo dell’intervallo è scomparso,
il dubbio è svanito. Da allora, L’ho visto in ogni momento,
ad ogni istante, Lui che prima era ora assente ora
presente. Mi ha travolto: impossibile sarebbe
pretendere ancora d’ignorarLo: estrema era la Sua vicinanza a me,
era il mio udito e la mia vista. |