4. CONTEMPORANEI
(XX secolo)
(30
settembre, giorno della sua morte) - È l'agonia pura, senza traccia di
consolazione. Vede, Madre mia,
quanta forza ho oggi! No, non muoio. Ne ho ancora
per dei mesi. Non credo più alla morte per me. Non credo
più che alla sofferenza! Ebbene, tanto meglio!
Oh Dio, lo amo, Dio tanto buono e misericordioso! Oh mia buona Vergine Santa,
soccorretemi! Se questa è l'agonia,
che cos'è la morte? Madre mia, le assicuro che il calice è pieno fino all'orlo!
Sì, mio Dio, tutto quello che vorrete, ma abbiate
pietà di me! Sorelline mie, sorelline mie, pregate per me! Tutto quello che
ho scritto sui miei desideri di soffrire, oh! È ben vero! Non mi pento di
essermi offerta all'amore, anzi... Non avrei mai creduto
possibile soffrire tanto! Mai! Mai! Non posso spiegarmelo se non con i desideri
ardenti che ho avuto di salvare le anime. Madre mia, non è
ancora l'agonia! Non muoio ancora? Ebbene... Avanti!
Avanti! Oh, non vorrei soffrire meno! Io l'amo! Dio mio, ti amo! (Teresa di Gesù Bambino, Scritti, citati in Enzo
Bianchi, Vivere la morte, Gribaudi,
Torino 1987, p. 87) BRANI SCELTI «La conoscenza essenziale
della verità, cioè la partecipazione alla verità
stessa, significa perciò entrare nelle viscere della Unitrinità divina, e non semplicemente attingere idealmente
la sua forma esteriore. Perciò la vera conoscenza
è conoscenza della verità ed è possibile solo attraverso la transustanziazione
dell’uomo, la sua divinizzazione, l’acquisto dell’amore quale sostanza divina:
chi non è con Dio non conosce Dio. La conoscenza effettiva della verità è
pensabile nell’amore, e, viceversa, la conoscenza della verità si manifesta
attraverso l’amore: chi è con l’Amore non può non amare. Qui è impossibile
dire che cosa sia la causa e cosa l’effetto, perché
l’una e l’altro sono soltanto aspetti di un’unica realtà: l’ingresso di Dio
in me come soggetto filosofante e di me in Dio come verità oggettiva. (...).
Ciò che per il soggetto
della conoscenza è verità, per l’oggetto della conoscenza
è amore, mentre per chi contempla la conoscenza è bellezza
(...). La verità manifesta è amore. L’amore realizzato è bellezza.
Il mio stesso amore è azione di Dio in me, e mia in Dio. Questa coattività
è il principio della mia partecipazione alla vita e all’essere divini, cioè all’amore sostanziale, perché la verità assoluta
di Dio si dischiude appunto nell’amore» (pp. 114-115). «La conoscenza di
Dio da parte dell’uomo si dischiude e manifesta inevitabilmente con l’amore
attivo per la creatura, quale la fornisce già l’esperienza immediata. L’amore
manifestato per la creatura si contempla oggettivamente come bellezza; donde
il godimento, la gioia, la consolazione quando contempliamo con amore. Ciò
che rallegra si chiama bellezza; l’amore come oggetto di contemplazione
è bellezza» (pp. 124-125) «Amare Dio invisibile
significa aprire passivamente il cuore davanti a Lui e attendere l’attiva
rivelazione di Lui, in modo che nel cuore scenda l’energia dell’amore divino:
“La causa dell’amore per Dio è Dio (causa diligenti Deum, Deus est)”,
dice Bernardo da Chiaravalle. Invece, amare la creatura visibile significa permettere
all’energia divina ricevuta di espandersi, attraverso chi l’accoglie, all’esterno,
attorno a chi l’accoglie, così come questa energia
agisce nella Divinità triipostatica, sì che essa
passa all’altro, al fratello. L’amore per il fratello è assolutamente impossibile agli sforzi puramente umani, è
opera della forza divina. Quando amiamo, amiamo
da Dio e in Dio» (p. 125). «L’amore consegue
dalla conoscenza di Dio per la stessa necessità onde la luce splende dal lume
e il profumo emana dal fiore dischiuso: “La conoscenza diviene amore” (Gregorio
Nisseno). Perciò
l’amore reciproco dei discepoli di Cristo è il vessillo, il segno della loro
istruzione, della loro sapienza, del loro camminare nella verità. L’amore
è il segno specifico dal quale si conosce il discepolo di Cristo» (Gv. 13, 35)» (p. 130). «Il vero amore è
uscire dall’empirico e passare a
una nuova realtà. L’amore per l’altro è un riflesso su di lui della vera conoscenza,
e la conoscenza è rivelazione della Verità triipostatica
stessa al cuore, cioè l’inabitazione
nell’anima dell’amore divino per l’uomo: “Se ci amiamo l’un l’altro, Iddio
abita in noi e il suo amore in noi è perfetto” (1 Gv
4,12)». In questo caso noi siamo entrati con Lui non semplicemente in un
rapporto impersonale, economico-cosmico, ma anche in una comunione personale
di padre-figlio. (…) . Diciamo “amore”,
ma in che cosa si esprime concretamente questo amore
spirituale? Si risponde: Nel superare i confini dell’aseità, nell’uscire da
se stessi, e per questo è necessaria la comunione spirituale reciproca (…).
La natura metafisica dell’amore sta nel superamento translogico
dell’autoidentità Io = Io e nell’uscita da sé.
Questo avviene confluendo nell’altro, quando si riversa nell’altro la forza
divina che spezza i ceppi dell’aseità umana finita. Allora l’Io nell’altro,
nel non Io, diviene consustanziale
all’altro (omoùsios) e non semplicemente
simile all’altro (omoiùsios),
come richiede il moralismo, che è uno sforzo futile e demente dell’amore
umano extradivino» (pp. 132 - 133). (Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1974) CRISTIANI E PAGANI 1 Uomini vanno a Dio nella
loro tribolazione, piangono per aiuto, chiedono
felicità e pane, salvezza dalla malattia,
dalla colpa, dalla morte. Così fanno tutti,
tutti, cristiani e pagani. 2 Uomini vanno a
Dio nella sua tribolazione, lo trovano povero,
oltraggiato, senza tetto né pane, lo vedono consunto
da peccati, debolezza e morte. I cristiani stanno
vicino a Dio nella sua sofferenza. 3 Dio va a tutti gli
uomini nella loro tribolazione, sazia il corpo e l'anima
del suo pane, muore in croce per cristiani
e pagani e a questi e a quelli
perdona (p. 427). DELLE POTENZE BENIGNE Circondato fedelmente
e tacitamente da benigne potenze, meravigliosamente protetto e consolato,
voglio questo giorno vivere
con voi, e con voi entrare
nel nuovo anno. Del vecchio, il
nostro cuore ancora vuole lamentarsi, ancora ci opprime il grave
peso di brutti giorni, oh, Signore, dona
alle nostre anime impaurite la salvezza alla quale
ci hai preparato. E tu ci porgi il
duro calice, l'amaro calice della sofferenza, ripieno
fino all'orlo, e così lo prendiamo,
senza tremare, dalla tua buona, amata
mano. E tuttavia ancora
ci vuoi donare gioia, per questo mondo e
per lo splendore del suo sole, e noi vogliamo allora
ricordare ciò che è passato e così appartiene
a te la nostra intera vita. Fa' ardere oggi
le calde e silenziose candele, che hai portato nella
nostra oscurità; riconducici, se è possibile,
ancora insieme. Noi lo sappiamo, la tua luce arde nella notte. Quando il silenzio
profondo scende intorno a noi, facci udire quel suono
pieno del mondo, che invisibile s'estende
intorno a noi, l'alto canto di lode
di tutti i tuoi figli. Da potenze benigne
meravigliosamente soccorsi, attendiamo consolati ogni
futuro evento. Dio è con noi alla sera e al mattino, e senza fallo, in
ogni nuovo giorno (p. 485). (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza
e resa. Lettere e scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo 1988) L'infelicità rende Dio assente agli occhi degli uomini per un certo
tempo, più assente di un morto, più assente della luce in una prigione oscura.
Una specie di orrore sommerge tutta l'anima. Durante
questa assenza non trova nulla che possa
amare. E se in queste tenebre, in cui non vi è nulla da amare, l'anima smette
di amare, l'assenza di Dio diventa definitiva:
è terribile solo a pensarci. È necessario che
l'anima continui ad amare a vuoto, o per lo meno a voler amare, anche soltanto
con una parte infinitamente piccola di se stessa. Allora
un giorno Dio stesso viene a rivelarsi a lei e a mostrarle la bellezza del
mondo, come avvenne per Giobbe. Ma se l'anima cessa di
amare precipita già qui sulla terra in uno stato quasi equivalente
all'inferno (p. 165). Dio crea se stesso
e si conosce perfettamente allo stesso modo in cui noi costruiamo e conosciamo
miserevolmente degli oggetti fuori di noi. Ma
prima di tutto Dio è amore. Prima di tutto Dio ama se stesso. Quest'amore, questa amicizia
in Dio è la Trinità. Tra i termini uniti da questa relazione di amore divino, c'è qualcosa di più che una vicinanza:
c'è vicinanza infinita, identità. Ma a causa della
creazione, dell'incarnazione e della passione, è anche una distanza infinita.
La totalità dello spazio, la totalità del tempo interpongono
il loro spessore e pongono una distanza infinita fra Dio e Dio. Gli amanti e gli amici desiderano due cose: di amarsi al punto di
entrare l'uno nell'altro e diventare un solo essere e di amarsi al punto che
la loro unione non ne soffra, quand'anche fossero divisi dalla metà del globo
terrestre. Tutto ciò che l'uomo desidera invano quaggiù, è perfetto e reale
in Dio. Tutti i nostri desideri impossibili sono
il segno del nostro destino e diventano buoni per noi proprio nel momento
in cui non speriamo più di realizzarli.
L'amore fra Dio e Dio, che
è esso stesso Dio, è questo legame che possiede una virtù duplice; questo
legame che unisce due esseri al punto che essi non sono più separabili e
sono realmente un essere solo; questo legame che annulla la distanza e trionfa
della separazione infinita. L'unicità di Dio,
in cui sparisce ogni pluralità, e l'abbandono in cui crede di trovarsi Cristo
pur non cessando di amare perfettamente il Padre, sono due forme divine dello
stesso Amore, che è Dio stesso (pp. 171-172). (Simone Weil, L'amore di Dio, Borla, Torino 1968)
«Dio non si limita
a giudicare impassibilmente le azioni dell’uomo, con spirito di freddo distacco.
Il Suo giudizio è intriso di un sentimento di intima
sollecitudine. Verso tutti gli uomini Egli è padre, non solo giudice; Egli
è lo sposo promesso al Suo popolo, non solo un re. Dio sta in rapporto appassionato
con l’uomo. Il Suo amore o la Sua ira, la Sua misericordia o la Sua delusione
sono espressione della Sua profonda partecipazione
alla storia di Israele e di tutta l’umanità. […] La Bibbia non è
una storia del popolo ebraico ma la storia di Dio che cerca l’uomo giusto.
A causa dello sbandamento di tutta la specie umana nel suo complesso sul sentiero
della giustizia, è all’individuo singolo (Noè,
Abramo), a un popolo (Israele), a una parte del
popolo, che viene assegnato il compito di rispondere a questa ricerca facendo
di ogni uomo un uomo giusto. Un grido eterno
echeggia nel mondo: Dio è in cerca dell’uomo. Alcuni ne rimangono sbigottiti,
altri invece restano sordi. Siamo tutti cercati. Un’aria di attesa aleggia su tutta la vita. Qualcosa viene chiesto all’uomo, a tutti gli uomini» (Abraham Joshua Heschel, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Rusconi, Milano 1987, pp. 242-244).
«Credo nel sole,
anche quando non splende; credo nell'amore, anche quando non lo sento, credo
in Dio, anche quando tace». (Scritta sul muro
di una cantina di Colonia, dove alcuni ebrei si nascosero per tutta la durata
della guerra). In una delle rovine
del ghetto di Varsavia, tra cumuli di pietra carbonizzate
e ossa umane, sigillato con cura in una piccola bottiglia, fu trovato il seguente
testamento, scritto da un ebreo di nome Yossl
Rakover nelle ultime ore del ghetto (p.
11).
[...] La morte non può aspettare oltre, e io devo
finire di scrivere. Dai piani superiori gli spari si fanno ogni istante più isolati. Cadono adesso gli ultimi
difensori di questa postazione, e con loro cade e muore la grande, bella,
devota Varsavia ebraica. Il sole è ormai al tramonto, e ringrazio Dio che
non dovrò rivederlo mai più. Il bagliore degli incendi penetra dalla finestrella,
e il frammento di cielo davanti a me è rosso e increspato come una cascata
di sangue. Tra un'ora al massimo sarò con la mia famiglia, e con milioni
di altri uccisi del mio popolo, in quel
mondo migliore in cui non vi sono più dubbi e Dio è l'unico pietoso sovrano. Muoio tranquillo,
ma non appagato, colpito, ma non asservito, amareggiato, ma non deluso, credente,
ma non supplice, colmo d'amore per Dio, ma senza
rispondergli ciecamente «amen». Io l'ho seguito
anche quando mi ha allontanato da sé; ho fatto la sua volontà persino quando
mi ha colpito per questo; l'ho amato, e ho continuato ad amarlo anche quando
mi ha umiliato oltre ogni dire, quando mi ha torturato a morte, quando mi
ha esposto alla vergogna e allo scherno. Il mio rebbe soleva raccontarmi la storia di un ebreo che
era sfuggito con la moglie e il figlio all'Inquisizione spagnola, e con una
piccola barca, sul mare in tempesta, aveva raggiunto un'isoletta rocciosa.
Cadde un fulmine e uccise sua moglie. Venne una tempesta e gettò suo figlio
in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito
dai tuoni e dai fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l'ebreo
proseguì il suo cammino sull'isola rocciosa e deserta, e si rivolse al suo
Creatore con queste parole: «Dio d'Israele,
sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato,
per obbedire ai Tuoi comandamenti e santificare il Tuo nome. Tu però fai di
tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire
ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri,
che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere,
mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò
sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!». E queste sono anche
le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d'ira: Non Ti servirà a nulla!
Hai fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi
più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un'incrollabile
fede in Te. Sia lodato in eterno
il Dio dei morti, il Dio della vendetta, della verità e della giustizia, che
presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne scuoterà
le fondamenta con la sua voce onnipotente. Ascolta, Israele,
il Signore è il nostro Dio,
il Signore è uno. Nella Tua mano, Signore, affido il mio
spirito [In ebraico nel testo. Le due frasi sono
citazioni di Dt 6,4 (la prima) e di Sal 31,6 (la seconda), e fanno parte della preghiera
che viene recitata in punto di morte (Vidduy)] (pp. 27-29). (Zvi Kolitz, Yossl Rakover
si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 1997)
L’Amore ci incoronò e ci benedisse Lo Spirito di Dio
entrò in noi Ed ecco che la Sua
Epifania noi fummo L’emanazione del
Suo splendore pervase l’universo Lune e soli si rallegrarono Per la gioia di
incontrarLo Entrammo in un istante
di estasi Veli si dispersero
e una nebulosa si squarciò Vedemmo quello che
non videro i santi I giardini dell’eternità
e la valle di Tuwà vedemmo Vedemmo il Trono Un alone di luce
irradiava Mentre il regno
degli angeli si accendeva Vedemmo città di
cristallo e castelli d’oro Ruscelli di quarzo
e cornalina Scorrere fiammeggianti E montagne di smeraldo Vedemmo laghi che
emanavano bagliori d’argento La luce era un velo
alla luce E cominciammo a nuotare…
Confuso innanzi
a ciò che intende e legge, mio figlio mi chiese:
"Come venne Allah? Per me ciò è un
mistero. Se ne dice bene e male, spiegami". Dissi: "Oh figlio
mio! Sono al pari degli
altri. Vedo la infermità in un
modo e in un altro quando
sono sano. Ogni volta che sollevo
un velo sembra che ne cali un
altro [...] Se altri amarono
Allah tremendo artista distruttore e despota, io invece Lo amai sereno incantatore. Lo vedo nella brina
e nei petali e nel bagliore delle
meteoriti. Se le stelle un
giorno prima piomberanno ed appassiranno tutti
i fiori e scomparirà quanto
ha creato, Ei m'apparirà in
tutta la sua beltà nei versi del poeta. (cit. in Fu'ad Kabasi, Calchi di poesia contemporanea,
Mondadori, Milano 1962, pp. 7 |