4. CONTEMPORANEI (XX secolo)


T ERESA DI GESÙ BAMBINO (Alençon 1873 - Lisieux 1897)

(30 settembre, giorno della sua morte) - È l'agonia pura, senza traccia di consolazione.

Vede, Madre mia, quanta forza ho oggi! No, non muoio. Ne ho ancora per dei mesi. Non credo più alla morte per me. Non credo più che alla sofferenza! Ebbene, tanto meglio! Oh Dio, lo amo, Dio tanto buono e misericordioso! Oh mia buona Vergine Santa, soccorretemi!

Se questa è l'agonia, che cos'è la morte? Madre mia, le assicuro che il calice è pieno fino all'orlo! Sì, mio Dio, tutto quello che vorrete, ma abbiate pietà di me! Sorelline mie, sorelline mie, pregate per me!

Tutto quello che ho scritto sui miei desideri di soffrire, oh! È ben vero! Non mi pento di essermi offerta all'amore, anzi...

Non avrei mai creduto possibile soffrire tanto! Mai! Mai! Non posso spiegarmelo se non con i desideri ardenti che ho avuto di salvare le anime.

Madre mia, non è ancora l'agonia! Non muoio ancora? Ebbene... Avanti! Avanti! Oh, non vorrei soffrire meno! Io l'amo! Dio mio, ti amo!

(Teresa di Gesù Bambino, Scritti, citati in Enzo Bianchi, Vivere la morte, Gribaudi, Torino 1987, p. 87)


F LORENSKIJ (pensatore russo, Tiflis 1882 - 1948)

BRANI SCELTI

«La conoscenza essenziale della verità, cioè la partecipazione alla verità stessa, significa perciò entrare nelle viscere della Unitrinità divina, e non semplicemente attingere idealmente la sua forma esteriore. Perciò la vera conoscenza è conoscenza della verità ed è possibile solo attraverso la transustanziazione dell’uomo, la sua divinizzazione, l’acquisto dell’amore quale sostanza divina: chi non è con Dio non conosce Dio. La conoscenza effettiva della verità è pensabile nell’amore, e, viceversa, la conoscenza della verità si manifesta attraverso l’amore: chi è con l’Amore non può non amare. Qui è impossibile dire che cosa sia la causa e cosa l’effetto, perché l’una e l’altro sono soltanto aspetti di un’unica realtà: l’ingresso di Dio in me come soggetto filosofante e di me in Dio come verità oggettiva. (...).

Ciò che per il soggetto della conoscenza è verità, per l’oggetto della conoscenza è amore, mentre per chi contempla la conoscenza è bellezza (...). La verità manifesta è amore. L’amore realizzato è bellezza. Il mio stesso amore è azione di Dio in me, e mia in Dio. Questa coattività è il principio della mia partecipazione alla vita e all’essere divini, cioè all’amore sostanziale, perché la verità assoluta di Dio si dischiude appunto nell’amore» (pp. 114-115).

«La conoscenza di Dio da parte dell’uomo si dischiude e manifesta inevitabilmente con l’amore attivo per la creatura, quale la fornisce già l’esperienza immediata. L’amore manifestato per la creatura si contempla oggettivamente come bellezza; donde il godimento, la gioia, la consolazione quando contempliamo con amore. Ciò che rallegra si chiama bellezza; l’amore come oggetto di contemplazione è bellezza» (pp. 124-125)

«Amare Dio invisibile significa aprire passivamente il cuore davanti a Lui e attendere l’attiva rivelazione di Lui, in modo che nel cuore scenda l’energia dell’amore divino: “La causa dell’amore per Dio è Dio (causa diligenti Deum, Deus est)”, dice Bernardo da Chiaravalle. Invece, amare la creatura visibile significa permettere all’energia divina ricevuta di espandersi, attraverso chi l’accoglie, all’esterno, attorno a chi l’accoglie, così come questa energia agisce nella Divinità triipostatica, sì che essa passa all’altro, al fratello. L’amore per il fratello è assolutamente impossibile agli sforzi puramente umani, è opera della forza divina. Quando amiamo, amiamo da Dio e in Dio» (p. 125).

«L’amore consegue dalla conoscenza di Dio per la stessa necessità onde la luce splende dal lume e il profumo emana dal fiore dischiuso: “La conoscenza diviene amore” (Gregorio Nisseno). Perciò l’amore reciproco dei discepoli di Cristo è il vessillo, il segno della loro istruzione, della loro sapienza, del loro camminare nella verità. L’amore è il segno specifico dal quale si conosce il discepolo di Cristo» (Gv. 13, 35)» (p. 130).

«Il vero amore è uscire dall’empirico e passare a una nuova realtà. L’amore per l’altro è un riflesso su di lui della vera conoscenza, e la conoscenza è rivelazione della Verità triipostatica stessa al cuore, cioè l’inabitazione nell’anima dell’amore divino per l’uomo: “Se ci amiamo l’un l’altro, Iddio abita in noi e il suo amore in noi è perfetto” (1 Gv 4,12)». In questo caso noi siamo entrati con Lui non semplicemente in un rapporto impersonale, economico-cosmico, ma anche in una comunione personale di padre-figlio. (…) .

Diciamo “amore”, ma in che cosa si esprime concretamente questo amore spirituale? Si risponde: Nel superare i confini dell’aseità, nell’uscire da se stessi, e per questo è necessaria la comunione spirituale reciproca (…). La natura metafisica dell’amore sta nel superamento translogico dell’autoidentità Io = Io e nell’uscita da sé. Questo avviene confluendo nell’altro, quando si riversa nell’altro la forza divina che spezza i ceppi dell’aseità umana finita. Allora l’Io nell’altro, nel non Io, diviene consustanziale all’altro (omoùsios) e non semplicemente simile all’altro (omoiùsios), come richiede il moralismo, che è uno sforzo futile e demente dell’amore umano extradivino» (pp. 132 - 133).

(Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1974)


B ONHOEFFER (Breslau 1906 - Flossenbürg 1945)

CRISTIANI E PAGANI

1 Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,

piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,

salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.

Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.

2 Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,

lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,

lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.

I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.

3 Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,

sazia il corpo e l'anima del suo pane,

muore in croce per cristiani e pagani

e a questi e a quelli perdona (p. 427).

DELLE POTENZE BENIGNE

Circondato fedelmente e tacitamente da benigne potenze,

meravigliosamente protetto e consolato,

voglio questo giorno vivere con voi,

e con voi entrare nel nuovo anno.

Del vecchio, il nostro cuore ancora vuole lamentarsi,

ancora ci opprime il grave peso di brutti giorni,

oh, Signore, dona alle nostre anime impaurite

la salvezza alla quale ci hai preparato.

E tu ci porgi il duro calice, l'amaro calice

della sofferenza, ripieno fino all'orlo,

e così lo prendiamo, senza tremare,

dalla tua buona, amata mano.

E tuttavia ancora ci vuoi donare gioia,

per questo mondo e per lo splendore del suo sole,

e noi vogliamo allora ricordare ciò che è passato

e così appartiene a te la nostra intera vita.

Fa' ardere oggi le calde e silenziose candele,

che hai portato nella nostra oscurità;

riconducici, se è possibile, ancora insieme.

Noi lo sappiamo, la tua luce arde nella notte.

Quando il silenzio profondo scende intorno a noi,

facci udire quel suono pieno del mondo,

che invisibile s'estende intorno a noi,

l'alto canto di lode di tutti i tuoi figli.

Da potenze benigne meravigliosamente soccorsi,

attendiamo consolati ogni futuro evento.

Dio è con noi alla sera e al mattino,

e senza fallo, in ogni nuovo giorno (p. 485).

(Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo 1988)


S IMONE WEIL (Parigi 1909 - Ashford 1943)

L'infelicità rende Dio assente agli occhi degli uomini per un certo tempo, più assente di un morto, più assente della luce in una prigione oscura. Una specie di orrore sommerge tutta l'anima. Durante questa assenza non trova nulla che possa amare. E se in queste tenebre, in cui non vi è nulla da amare, l'anima smette di amare, l'assenza di Dio diventa definitiva: è terribile solo a pensarci.

È necessario che l'anima continui ad amare a vuoto, o per lo meno a voler amare, anche soltanto con una parte infinitamente piccola di se stessa. Allora un giorno Dio stesso viene a rivelarsi a lei e a mostrarle la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe. Ma se l'anima cessa di amare precipita già qui sulla terra in uno stato quasi equivalente all'inferno (p. 165).

Dio crea se stesso e si conosce perfettamente allo stesso modo in cui noi costruiamo e conosciamo miserevolmente degli oggetti fuori di noi. Ma prima di tutto Dio è amore. Prima di tutto Dio ama se stesso. Quest'amore, questa amicizia in Dio è la Trinità. Tra i termini uniti da questa relazione di amore divino, c'è qualcosa di più che una vicinanza: c'è vicinanza infinita, identità. Ma a causa della creazione, dell'incarnazione e della passione, è anche una distanza infinita. La totalità dello spazio, la totalità del tempo interpongono il loro spessore e pongono una distanza infinita fra Dio e Dio.

Gli amanti e gli amici desiderano due cose: di amarsi al punto di entrare l'uno nell'altro e diventare un solo essere e di amarsi al punto che la loro unione non ne soffra, quand'anche fossero divisi dalla metà del globo terrestre. Tutto ciò che l'uomo desidera invano quaggiù, è perfetto e reale in Dio. Tutti i nostri desideri impossibili sono il segno del nostro destino e diventano buoni per noi proprio nel momento in cui non speriamo più di realizzarli.

L'amore fra Dio e Dio, che è esso stesso Dio, è questo legame che possiede una virtù duplice; questo legame che unisce due esseri al punto che essi non sono più separabili e sono realmente un essere solo; questo legame che annulla la distanza e trionfa della separazione infi­nita. L'unicità di Dio, in cui sparisce ogni pluralità, e l'abbandono in cui crede di trovarsi Cristo pur non cessando di amare perfettamente il Padre, sono due forme divine dello stesso Amore, che è Dio stesso (pp. 171-172).

(Simone Weil, L'amore di Dio, Borla, Torino 1968)

H ESCHEL (Varsavia 1907 ‑ New York 1972)

«Dio non si limita a giudicare impassibilmente le azioni dell’uomo, con spirito di freddo distacco. Il Suo giudizio è intriso di un sentimento di intima sollecitudine. Verso tutti gli uomini Egli è padre, non solo giudice; Egli è lo sposo promesso al Suo popolo, non solo un re. Dio sta in rapporto appassionato con l’uomo. Il Suo amore o la Sua ira, la Sua misericordia o la Sua delusione sono espressione della Sua profonda partecipazione alla storia di Israele e di tutta l’umanità. […]

La Bibbia non è una storia del popolo ebraico ma la storia di Dio che cerca l’uomo giusto. A causa dello sbandamento di tutta la specie umana nel suo complesso sul sentiero della giustizia, è all’individuo singolo (Noè, Abramo), a un popolo (Israele), a una parte del popolo, che viene assegnato il compito di rispondere a questa ricerca facendo di ogni uomo un uomo giusto.

Un grido eterno echeggia nel mondo: Dio è in cerca dell’uomo. Alcuni ne rimangono sbigottiti, altri invece restano sordi. Siamo tutti cercati. Un’aria di attesa aleggia su tutta la vita. Qualcosa viene chiesto all’uomo, a tutti gli uomini»

(Abraham Joshua Heschel, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Rusconi, Milano 1987, pp. 242-244).

K OLITZ (Alytus, Lituania, 1919 - ?)

«Credo nel sole, anche quando non splende; credo nell'amore, anche quando non lo sento, credo in Dio, anche quando tace».

(Scritta sul muro di una cantina di Colonia, dove alcuni ebrei si nascosero per tutta la durata della guerra).

In una delle rovine del ghetto di Varsavia, tra cumuli di pietra carbonizzate e ossa umane, sigillato con cura in una piccola bottiglia, fu trovato il seguente testamento, scritto da un ebreo di nome Yossl Rakover nelle ultime ore del ghetto (p. 11).

[...] La morte non può aspettare oltre, e io devo finire di scrivere. Dai piani superiori gli spari si fanno ogni istante più isolati. Cadono adesso gli ultimi difensori di questa postazione, e con loro cade e muore la grande, bella, devota Varsavia ebraica. Il sole è ormai al tramonto, e ringrazio Dio che non dovrò rivederlo mai più. Il bagliore degli incendi penetra dalla finestrella, e il frammento di cielo davanti a me è rosso e increspato come una cascata di sangue. Tra un'ora al massimo sarò con la mia famiglia, e con milioni di altri uccisi del mio popolo, in quel mondo migliore in cui non vi sono più dubbi e Dio è l'unico pietoso sovrano.

Muoio tranquillo, ma non appagato, colpito, ma non asservito, amareggiato, ma non deluso, credente, ma non supplice, colmo d'amore per Dio, ma senza rispondergli ciecamente «amen».

Io l'ho seguito anche quando mi ha allontanato da sé; ho fatto la sua volontà persino quando mi ha colpito per questo; l'ho amato, e ho continuato ad amarlo anche quando mi ha umiliato oltre ogni dire, quando mi ha torturato a morte, quando mi ha esposto alla vergogna e allo scherno.

Il mio rebbe soleva raccontarmi la storia di un ebreo che era sfuggito con la moglie e il figlio all'Inquisizione spagnola, e con una piccola barca, sul mare in tempesta, aveva raggiunto un'isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e uccise sua moglie. Venne una tempesta e gettò suo figlio in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l'ebreo proseguì il suo cammino sull'isola rocciosa e deserta, e si rivolse al suo Creatore con queste parole:

«Dio d'Israele, sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato, per obbedire ai Tuoi comandamenti e santificare il Tuo nome. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!».

E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d'ira: Non Ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un'incrollabile fede in Te.

Sia lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio della vendetta, della verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente.

Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Nella Tua mano, Signore, affido il mio spirito [In ebraico nel testo. Le due frasi sono citazioni di Dt 6,4 (la prima) e di Sal 31,6 (la seconda), e fanno parte della preghiera che viene recitata in punto di morte (Vidduy)] (pp. 27-29).

(Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 1997)


M UHAMMAD AL-KHALIDI (1948-vivente)

L’Amore ci incoronò e ci benedisse

Lo Spirito di Dio entrò in noi

Ed ecco che la Sua Epifania noi fummo

L’emanazione del Suo splendore pervase l’universo

Lune e soli si rallegrarono

Per la gioia di incontrarLo

Entrammo in un istante di estasi

Veli si dispersero e una nebulosa si squarciò

Vedemmo quello che non videro i santi

I giardini dell’eternità e la valle di Tuwà vedemmo

Vedemmo il Trono

Un alone di luce irradiava

Mentre il regno degli angeli si accendeva

Vedemmo città di cristallo e castelli d’oro

Ruscelli di quarzo e cornalina

Scorrere fiammeggianti

E montagne di smeraldo

Vedemmo laghi che emanavano bagliori d’argento

La luce era un velo alla luce

E cominciammo a nuotare…


M ADY (Elia Abu Mady ?)

Confuso innanzi a ciò che intende e legge,

mio figlio mi chiese: "Come venne Allah?

Per me ciò è un mistero. Se ne dice bene e male, spiegami".

Dissi: "Oh figlio mio!

Sono al pari degli altri. Vedo

la infermità in un modo

e in un altro quando sono sano.

Ogni volta che sollevo un velo

sembra che ne cali un altro [...]

Se altri amarono Allah tremendo artista

distruttore e despota, io invece

Lo amai sereno incantatore.

Lo vedo nella brina e nei petali

e nel bagliore delle meteoriti.

Se le stelle un giorno prima piomberanno

ed appassiranno tutti i fiori

e scomparirà quanto ha creato,

Ei m'apparirà in tutta la sua beltà

nei versi del poeta.

(cit. in Fu'ad Kabasi, Calchi di poesia contemporanea, Mondadori, Milano 1962, pp. 7


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