- La morte di Mosè, La Bibbia di Chagall. - «TOV MUT»: BUONA È
LA MORTE?
Buona o malvagia, amica o nemica,
la morte rappresenta la vera prospettiva della vita: solo dalla considerazione
della fine discendono infatti la presenza e il valore di quel che c'è,
di ciò che si è avuto, di ciò che si vuole. Pier
Paolo Pasolini scrisse, in uno dei suoi saggi dedicati al cinema, che
"la morte rappresenta il montaggio fulmineo di una vita";
un'immagine forte ma vera, è vera per chi muore, è vera
per chi ritorna a vivere, provenendo dalle più diverse esperienze
di attesa o di varco del limite. Solo allora, infatti, tutto appare
diverso, per cui «c'è una dolcezza nella luce e gli uomini vedono
felici il sole». C'è una naturalità della morte che
noi però abbiamo oggi perduta: nel pensiero antico il buio che si oppone
alla vita, la brevità o la lunghezza dell'esistenza sono fonte di lamento
o rimpianto, ma non di scandalo, appartengono all'ordine del destino,
e il destino può essere crudele, come può essere crudele un inverno
nel suo gelo; sulla tomba di una bambina si può chiedere «sit tibi
terra levis», ma comunque dalla terra veniamo e alla terra si ritorna;
ciò che muta è solo l'intervallo di tempo nel mezzo. E
persino lo scandalo della morte di un bambino, quello che fa gridare
contro Dio Ivan Karamazov, è uno scandalo che rientra nella naturalità
del dolore, del destino umano; a questa morte si può opporre
un'altra nascita che serva a superare la perdita di una piccola esistenza
individuale, rispettando nel contempo la legge più forte, la
difesa della stirpe, la sopravvivenza della specie. Rachele può
piangere i suoi figli, ma sa che il potere della nascita è il
suo potere, un potere che genera sopravvivenza; anche se il parto può
sempre decretarne la fine, come è avvenuto per migliaia o milioni
di anni o di donne. Questa naturalità si è
perduta, la civiltà industriale e postindustriale ha devastato
questo ritmo alterno biologicamente determinato: le guerre di massa
sono diventate lo sterminio di massa, il genocidio la programmazione
della morte nella sua versione pianificata o ideologicamente predeterminata.
Nello stesso tempo (magari con esperimenti in corpore vili oppure
applicando ai 'civili' le scoperte dell'industria degli armamenti) la
vita è diventata potenzialmente lunghissima (o come mi disse
una saggia vecchietta contadina: «mi hanno allungato solo la vecchiaia!»),
la medicina tecnologica opera continui miracoli, in una continua modifica
dell'esistente; a questa vita dilatata, corrisponde la morte nascosta,
celata, allontanata dalle case, affidata agli obitori, esclusa dal pianto
e lamento delle antiche veglie. Siamo più fortunati o meno
fortunati? A ciascuno decidere come crede, a tutti l'invito a pregare
la preghiera più umana: la preghiera per una buona morte. E resta pur sempre la bellezza arcana
e imperitura del De
profundis, un grande grido che dal buio profondo dell'anima
sale alla speranza. Speravit anima mea
Laura Novati
Sede. Visite guidate
e concerto. Pernottamento. RELAZIONE Tov mut: buona è la morte? Convegno nazionale, Asti, 31 marzo – 2 aprile 2006 Persino un convegno di Biblia, quale quello tenutosi ad Asti tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, non ha potuto dare una risposta netta ad una domanda di tale portata: era del resto impossibile riuscirci, date le mille sfaccettature di una realtà complessa come la morte. In effetti, a ben guardare, essa può essere considerata “buona” da molteplici punti di vista. Nelle antiche civiltà emergeva accanto ad altre l’idea di una sorta di “naturalità” della morte percepita da alcuni come connaturata alla creazione dell’uomo e del mondo. Anche nel mondo biblico, che peraltro cerca di rintracciare una responsabilità primordiale dell’uomo all’origine della morte, qua e là fa capolino tale convinzione. Ne costituiscono un esempio le descrizioni delle lunghissime esistenze di molti personaggi della Genesi. Questi vanno incontro ad una morte sostanzialmente “buona” perché al termine di una vita lunga, gratificante e benedetta da una numerosissima discendenza. La Scrittura ci parla di un Abramo che muore “sazio di vita” e viene riunito ai suoi antenati. Ma paradossalmente anche una morte violenta ed ingiusta può essere interpretata come “buona” come suggerito con particolare insistenza dalle scritture cristiane con l’insegnamento gesuano del “dare la vita per coloro che si ama” e con il racconto dell’esemplare esistenza del Nazareno. Da sempre c’è stato anche chi ha percepito la morte come sollievo da una vita di dolore e priva di senso; e forse anche per l’età contemporanea, alle prese con nuovissime questioni etiche generate dall’incredibile sviluppo delle scienze, ci può essere una morte “buona” almeno in quanto non prefabbricata ma confezionata su misura per ogni singola persona (una rispettosa morte “di sartoria” contrapposta ad una anonima morte “pret-a-porter”). Accanto ad una morte “buona” c’è sicuramente una morte “cattiva” che anzi sembrerebbe nettamente prevalere sulla prima soprattutto nella percezione degli uomini contemporanei. Già anticamente la morte del giovane e del giusto aveva di fatto costituito un problema per molti versi insolubile. L’idea di una qualche vita oltre la morte (su questa stessa Terra o nell’ambito di una realtà ultraterrena) origina proprio dall’impossibilità in molti casi di rintracciare il criterio della giustizia nell’ambito delle singole esistenze. La morte, talvolta preceduta da indescrivibile sofferenza, dei bambini e dei giovani continua a non avere giustificazione alcuna e a gridare al cospetto di Dio, ed è vano (e per certi versi disumano) il tentativo di ricercare in tale realtà un qualche senso, magari illudendosi di trovarlo nelle tracce talvolta positive lasciate da tale evento nella vita di chi resta. I buchi neri della storia moderna e contemporanea, tra i quali spicca la Shoà, hanno poi provocato uno smottamento non contenibile nella riflessione filosofica e teologica sulla morte e su Dio. Il dio “tappabuchi” della teodicea e dei catechismi ha finito per soccombere sotto il peso della realtà, rappresentando un ultimo paradossale esempio di “buona” morte. Il Dio debole nato recentemente dalle proprie ed altrui ceneri (ma in realtà vecchio almeno quanto il Creato) non può esimersi dal condividere la vita delle sue creature e quindi, in ultima analisi, dal condividere anche l’esperienza della sofferenza e quella ineffabile della morte, il paolino “ultimo nemico”, nel tentativo estremo di svuotarla dall’interno. E questo, se così si può dire, lo potrà forse fare soltanto questo Dio “silenzioso” e “nascosto” ma alla spasmodica e amorosa ricerca della sua creatura prediletta che, anche se spesso orribilmente sfigurata, conserva ancora in sé fin dalla Creazione una traccia del volto originario e perduto del suo Signore.
Roberto Cerchio |