APPROFONDIMENTI CULTURALI - XXIV                                                                                                                             (ANNO XV, N.2)

EBREI, CRISTIANI E MUSULMANI DA
BOCCACCIO A LESSING

A conclusione del suo intervento di apertura del convegno internazionale “Corano e Bibbia” (Napoli, 24-27 ottobre 1997) Agnese Cini Tassinario ricordava che proprio in quella città “visse a lungo, studiò e lavorò, oltre seicento anni fa, colui che forse per primo espresse, con mirabile sensibilità ecumenica, il nostro tema: Giovanni Boccaccio”. Ci si riferiva alla nota “novella di tre anella”, e si suggeriva che alla questione posta dalla novella si può rispondere con un’altra domanda: “i tre anelli non sono stati tutti dati dallo stesso unico padre?” Alla vigilia del prossimo convegno internazionale di Torino è sembrato opportuno tornare più ampiamente su tale “qui-stione”.

La «novella di tre anella»
Nella prima giornata del Decameron si ragiona «di quello che più aggrada a ciascheduno»; tuttavia le prime tre delle cento novelle che compongono il capolavoro di Boccaccio hanno un tema comune, avendo a che fare, in un modo o in un altro, con la religione. Nella prima «Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato San Ciappelletto»; nella seconda «Abraam giudeo, da Gianotto di Civiginì stimolato, va in corte di Roma; veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi, e fassi cristiano»; nella terza «Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli». La prima novella mostra come anche la religione vera non sia al riparo dagli inganni tesi dall’astuzia umana e tuttavia indica anche come la misericordia di Dio sia più grande di quei sotterfugi
(cfr. il commento finale che chiude «ciclicamente» la prima novella); nella seconda un ebreo si converte proprio a motivo dei vizi grandi e innumerevoli
degli ecclesiastici considerati prova inconfutabile che il cristianesimo non potrebbe continuare a sussistere e a espandersi senza una speciale assistenza
divina; nella terza ci si interroga su quale, tra Ebraismo, Cristianesimo e Islam, sia la religione vera. Nella successione di queste prime tre novelle si può dunque notare un progressivo allargamento da un ambito intra-cristiano a uno ebraico-cristiano e infine a uno ebraico-cristiano-islamico. Inoltre, nella prima e nella seconda l’apologia del cristianesimo è condotta in modo paradossale mettendo in luce la miseria dei suoi membri e quindi per riflesso la misericordia di Dio; mentre nella terza il clima di tolleranza dipende tanto dall’abilità del saggio ebreo, quanto da una specie di singolare inganno a fin di bene tramato da una figura che simboleggia, in modo trasparente, Dio stesso. La misericordia divina trasforma la falsa e ingannevole confessione di Ser Ciappelletto in motivo di aiuto per i creduli fedeli; l’astuzia di Melchisedech indica invece una specie di misericordiosa frode tramata da Dio onnipotente nei confronti dei suoi figli.
Il nucleo centrale della novella, cioè la parabola dell’ebreo saggio, ebbe grande diffusione nel Medioevo, prima del Boccaccio era già stata narrata nel Novellino (LXXIII), mentre secondo alcuni studi la sua forma più antica sarebbe riflessa in un quattrocentesco libro ebraico che mette in scena Pietro d’Aragona ed è stata persino richiamata l’antica leggenda ellenistica di Iside che fece fare svariati simulacri del corpo d’Osiride perché le varie categorie di sacerdoti credessero ognuna di avere il cadavere autentico di quel dio (cfr. G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, 2 voll., Einaudi, Torino 1992 6 , p.78n); resta comunque probabile che in questa parabola vi sia un più o meno remoto influsso islamico. Melchisedech è nome del tutto inusitato per un ebreo, il misterioso personaggio biblico indicato con questo termine è qualificato dalla Genesi come re di Salem (città in genere identificata con l’antica Gerusalemme) e sacerdote del Dio Altissimo (’El ‘Eljon) (Gen 14,17- 20; cfr. Sal 110,4; Eb 5-7). Egli non era ebreo; questo personaggio indica in tal modo la possibilità di adorare il Dio vero indipendentemente dalla presenza di una rivelazione esplicita da parte del Signore (eventualità quest’ultima ben nota all’Islam che la esprime ricorrendo alla parola hanif – termine arabo di norma tradotto con la perifrasi di «monoteista puro» – figura impersonata, peraltro, da Abramo e non da Melchisedech cfr. Corano 2,131; 3,67; 4, 125; 6,161; 22,78). La scelta di questo nome per indicare uno dei due protagonisti della novella può essere occasionale e popolare (anche nel Novellino il protagonista ebreo si chiama Melchisedech); ma non si può del tutto
escludere che essa contenga una celata e dotta allusione a una dimensione originaria che precede e accomuna ebrei, cristiani e musulmani.
L’altro protagonista della novella è il Saladino, cioè il sultano curdo Yusuf ibn Ayyub, il cui nome onorifico suona Salah ad-Din («Integrità della religione»). Sull’uomo che nel 1187 recuperò all’Islam Gerusalemme, passato il primo momento nel quale le sue vittorie lo facevano definire il «primo nemico della croce», cominciarono a fiorire molte leggende. Lo stesso Boccaccio ce lo presenta anche in un’altra novella, quella di Torello di Pavia (la penultima del Decameron), in cui viene descritto come ospite magnanimo e cultore di arti magiche. Dante, dal canto suo, l’aveva già collocato – sia pure «solo in parte» – nel limbo tra gli «spiriti magni» e questa figura, oltre che in Lessing, sarebbe tornata in altri testi letterari fino al romanzo di Walter Scott, Il Talismano, in cui il Saladino, sapiente  e pensieroso, è contrapposto all’irruente Riccardo cuor di Leone. Va però sottolineato che il mondo musulmano, fino a oggi, l’ha considerato soprattutto come il liberatore dei Luoghi Santi islamici dalla mano degli infedeli.
 All’inizio della novella il Saladino, più che magnanimo, appare un astuto tessitore di inganni. Infatti, dovendo chiedere un forte prestito al ricco Melchisedech e non essendo momentaneamente nelle condizioni di poterlo rimborsare, cerca di metterlo in condizioni di cedere al suo volere ponendogli la
domanda di quale «delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana». Era chiaro il pericolo di rispondere in modo diretto a una
domanda posta da un’autorità politico-religiosa musulmana; infatti in quel frangente pareva difficile trovare un’alternativa tra conversione all’Islam o offesa mossa a quel potente. Prima di considerare la parabola con cui il saggio ebreo scampa al pericolo, è bene soffermarsi sul fatto che qui Melchisedech (a
differenza di Abraam della novella precedente, che era mercante) è presentato come usuraio, attività considerata ignobile, in contrasto sia con il diritto canonico cristiano sia con quello islamico, ma anche socialmente inevitabile. La questione del prestito a interesse rappresenta uno degli argomenti cruciali
legati alla presenza ebraica all’interno del mondo cristiano. La prima definizione canonica dell’usura (risalente all’806) comprendeva qualunque transazione
monetaria in cui si richiedesse indietro «più di quel che si era dato». Specie a partire dal XI sec., il crescente fabbisogno di liquidità urtò contro normative
tanto rigide, e per uscire dall’impaccio si fece ricorso al prestito ebraico, infatti il diritto canonico vincolava solo i cristiani. Bisogna tuttavia precisare che in Europa gli ebrei (come risulta dalla stessa novella di Ser Ciappelletto) non furono certo i soli a praticare il prestito a interesse: furono i soli a farlo in modo pubblico e tutelato dalle autorità civili. In effetti, l’eccesso di rigore delle leggi canoniche fece sì che, a differenza di quella ebraica, l’usura praticata dai cristiani si trasformasse in un traffico sordido e segreto. Nel Medioevo invece il prestito ebraico fu sempre regolamentato dalle autorità sia in riferimento all’apertura dei banchi, sia in relazione agli interessi praticati. Più in generale, va ricordato che il prestito su vasta scala fu sempre in mano cristiana (lombardi, caorsini...), mentre gli ebrei esercitavano quello più minuto.Il problema della legittimità del prestito a interesse suscitò discussioni anche da parte ebraica. In proposito il punto di riferimento principale fu costituito dal passo biblico che afferma: «Allo straniero (nokhri) presterai a interesse, ma non a tuo fratello [cioè a un altro ebreo]» (Dt 23,20). Già nel XII, una delle più alte autorità rabbiniche francesi, Rabbenu Tam, si appellò a questo principio per giustificare il fatto che, date le circostanze e le vessazioni a cui erano soggetti, gli ebrei non potevano esimersi dall’impegnarsi nel prestito a interesse. In linea di massima, venendo sempre più esclusi dalla possibilità di esercitare lavori agricoli e non potendo far parte delle corporazioni, agli ebrei non restò che esercitare l’artigianato, il commercio e, in maniera crescente, specie a partire dal tardo Medioevo, il prestito. Tale situazione favorì la nascita di stereotipi antigiudaici, sostenuti anche dall’associazione psicologica instaurata da parte cristiana tra l’usura giudaica e Giuda e i suoi trenta denari (cfr. Mt
26,14-16; 27,3-6). Tuttavia non furono pochi i casi in cui gli ebrei vennero rimpianti da chi, dopo la loro messa al bando, era ormai costretto a far ricorso a incontrollate forme di strozzinaggio compiute da cristiani. Nel mondo islamico il diritto proibisce qualunque forma di prestito a interesse tra musulmani, tale attività era dunque affidata a ebrei e cristiani (cioè a coloro che rientravano nello statuto della dhimma). Pur non essendo certo questo lo scopo principale della novella, dalla sua conclusione si può in un certo modo ricavare che la figura di Melchisedech rappresenta anche l’«altro» di cui cristiani e musulmani necessitano per soddisfare i propri bisogni finanziari: «Il giudeo liberamente d’ogni quantità che il Saladino il richiese il servì, e il Saladino poi interamente il sodisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per cui amico l’ebbe e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne».
Un ulteriore osservazione preliminare riguarda le modalità con cui è formulata la domanda proposta dal Saladino; infatti egli non chiede quale sia la fede o la religione vera (si pensi ad esempio ad Agostino e alla sua De vera religione), ma quale sia la legge verace. Al riguardo non è inutile notare che tanto in arabo quanto in ebraico manca un vero e proprio equivalente al termine religione. In particolare al parola araba din (la stessa che compone il nome Salah ad-Din) andrebbe tradotta più esattamente proprio con «diritto», «legge» e questo si spiega soprattutto per il carattere fortemente pratico che contraddistingue sia l’ebraismo sia l’islamismo; in entrambi i casi infatti un’importanza assolutamente centrale è attribuita all’esecuzione di norme  ritenute di origine divina volte a definire i compiti specifici di una determinata comunità. Non a caso la legge islamica disciplina tutta l’attività umana, lasciando però solo a Dio il giudizio sulle motivazioni e le convinzioni di ciascuno. I trattati di «diritto musulmano» si aprono perciò con una parte dedicata agli atti di culto
per poi continuare con quelli relativi ai rapporti del-l’uomo con l’altro uomo. Fatte le debite differenze, considerazioni non dissimili valgono poi anche per l’e-braismo.
Per comprendere adeguatamente la parabola proposta da Melchisedech per uscire d’impaccio, non bisogna mai dimenticare l’analogia che la innerva secondo cui il padre è figura di Dio. Il racconto dell’anello tramandato di generazione in generazione all’erede prediletto culmina infatti nella scelta di un padre che, avendo tre figli ugualmente «belli e virtuosi», decide di fare due copie identiche all’originale, il tal modo quando consegna separatamente l’anello ai tre figli ciascuno crede di avere tra le mani quello vero. Alla parabola segue immediatamente la sua spiegazione: «E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali quistion poneste: ciascun la sua eredità, la sua vera legge d i suoi comandamenti dirittamente [= a buon diritto] si crede avere e fare, ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione». Il racconto e il suo commento tengono fermi perciò contemporaneamente due prospettive: vi è un solo anello vero, ma tutti e tre sono stati certamente dati dallo stesso Dio. Ora è chiaro che la seconda constatazione riduce largamente la portata della prima: se tutte e tre le leggi sono state date, sia pure in momenti diversi, dallo stesso Dio è evidente che nessuna di esse può esser giudicata davvero falsa, al massimo la si può ritenere meno adeguata e completa della successiva. Osservata sotto questa angolatura, in tale risposta sembra riecheggiare in buona parte la convinzione islamica che prospetta il modo in cui si sono succedute la rivelazione della Torà ebraica, del Vangelo cristiano e del Corano: «Dio! Non c’è altro dio che Lui, il Vivente, che di sé vive. Egli t’ha [riferito a Muham-mad] rivelato il  Libro [cioè il Corano], con la Verità, confermante ciò che fu rivelato prima e ha rivelato la Torà e il Vangelo» (Corano, III, 2-3). Si comprende perciò sia perché i musulmani chiamino ebrei e cristiani «gente del Libro», sia perché ritengano che solo la loro religione possa considerare di origine divina
entrambe quelle che la precedono, è quindi logico che la tutela di queste ultime spetti ai musulmani (cfr. il successivo istituto della dhimma). Una volta che si afferma che è Dio colui che rivela tutte e tre le leggi, il problema non è più quello del relativismo – posizione stando alla quale ogni religione va bene per i suoi seguaci visto che non si sa quale sia la vera; al contrario, il tema principale diviene piuttosto quello della superiorità e della completezza della propria religione rispetto alle altre: «Voi [musulmani] siete la migliore comunità mai suscitata fra gli uomini; promuovete la giustizia e impedite l’ingiustizia, e credete in Dio. Ché se la gente del Libro anche credesse, meglio sarebbe per loro. Fra di loro vi sono anche credenti, ma i più sono empi» (Corano, III, 110).
 
 

Nathan il saggio di G. E. Lessing
In Occidente la Novella di tre anella ha avuto molta fortuna fino a giungere alla più celebre delle sue riproposizioni contenuta nel poema drammatico Nathan der Weise  («Nathan il saggio») composto dal critico, scrittore e drammaturgo tedesco Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) verso la fine della sua non lunga vita nel 1779. Quando si parla di questo autore è quasi inevitabile iniziare riferendosi a una frase proveniente da un altro testo, Replica   (1778), in pratica noto a vasto raggio solo per questo passo: «Se Dio tenesse chiusa nella sua mano destra tutta la verità e nella sinistra soltanto la spinta sempre viva verso la verità, seppure a condizione di errare in eterno, mi prosternerei umilmente davanti alla sua sinistra e gli direi: “Dammi questa, Padre! poiché la verità pura appartiene soltanto a te”». L’interesse dunque ora è spostato sull’uomo e sul suo inestinguibile impulso alla ricerca del vero. Da ciò ne
consegue che le rivelazioni di Dio sono da considerarsi non fini in se stesse, bensì puri mezzi pedagogici per educare l’umanità fino a quando non giunga il tempo di una moralità adulta e autonoma in cui il bene verrà compiuto solo per se stesso e non in vista dei premi promessi per la sua esecuzione o dei castighi minacciati: «Verrà certamente il tempo della perfezione, in cui l’uomo, pur essendo certo di un futuro sempre migliore, non avrà bisogno di ricavare da questa certezza le motivazioni delle sue attività. Allora farà il bene perché è il bene, non più in funzione delle arbitrarie ricompense destinate, ora, a formare la sua inquieta attenzione per fargli intuire le ricompense intrinseche al bene stesso» (L’educazione del genere umano, n. 85). L’educazione dell’umanità è dunque mezzo per raggiungere l’umanità compiuta, ma è anche un fine in se stesso in quanto è la ricerca del vero e non già il suo possesso a formare l’essenza del compimento umano.
Il poema drammatico di Lessing, ricco com’è di personaggi e intrecci, non può di sicuro ridursi alla riformulazione della parabola delle tre anella che pure nel pezzo teatrale occupa un posto di rilievo. La nostra attenzione si concentrerà comunque proprio sulla parabola raccontata da Nathan (nome, a  differenza di Melchisedech, effettivamente ebraico) o meglio su alcuni suoi sviluppi proposti in questa versione di fine Settecento pervasa da ideali di tolleranza illuministico-massonici (Lessing era entrato nella massoneria nel 1771).
L’ampliamento della parabola operato da Lessing si preoccupa soprattutto di porre in luce il contrasto tra quello che dovrebbe essere l’influsso del vero anello, l’amabilità e la concordia, e i violenti litigi che insorgono tra i fratelli dopo la morte dei padri in quanto ciascuno  rivendica con prepotenza di essere lui il possessore dell’anello vero; di fronte a tale situazione non è azzardato supporre che il vero anello in realtà sia andato perduto, visto che non se ne constata da nessuna parte il benefico effetto. I fratelli, per appianare i loro contrasti, si rivolgono infine a un giudice, il quale, dopo aver deprecato i loro reciproci, violenti dissapori si rifiuta di emettere la sentenza ma dà loro il seguente consiglio: «accettate la cosa come sta; ciascuno di voi ebbe il suo anello direttamente dal padre, ciascuno di voi lo ritenga quello vero. È possibile che il padre non abbia voluto tollerar oltre nel suo casato la tirannia di quell’unico anello; è certo che egli vi ha amati del pari tutti e tre, poiché non volle umiliarne due per esaltarne un terzo. Sta bene ! Emulate or voi quel suo amore
incorruttibile e scevro di pregiudizi ! Gareggiate tra voi nel metter in evidenza la virtù dell’anello! Assecondate questa virtù colla mitezza, colla  sopportazione cordiale, colla carità del prossimo, colla rassegnazione al volere di Dio. E quando le virtù dell’anello si saranno manifestate nei figli e nei figli dei figli, fra mille e mill’anni io li invito ad adire questo tribunale. Un uomo più saggio di me vi siederà ed egli pronuncerà
la sentenza. Andate !...» (G. E. Lessing, Nathan il saggio, in Teatro, introduzione di M. Freschi, trad. di B. Allason, Utet, Torino 1981, p. 252).
Le parole pronunciate dal giudice indicano una prospettiva che appare del tutto in sintonia con il più comune «sentire» del moderno uomo occidentale; questa posizione è riassumibile con un paio di interrogativi retorici: Perché occuparsi tanto di chi ha la verità? L’importante non è forse dare frutti di concordia e di pace? Vale però la pena di scavare un po’ più a fondo nel retroterra di una frase che non trova riscontro nel modello proposto dal Boccaccio. Questo passo, difatti, non è ispirato al Decameron, bensì rappresenta una riscrittura laica di alcuni versetti coranici:
 

«Facemmo loro seguire Gesù figlio di Maria, a conferma della Torà rivelata prima di lui, e gli demmo il Vangelo pieno di retta guida e di luce, confermante la Torà rivelata prima di esso, retta guida e ammonimento ai timorati di Dio. Giudichi dunque la gente del Vangelo secondo quel che Iddio ivi ha rivelato, che coloro che non giudicano secondo la rivelazione di Dio, sono perversi. E a te abbiamo rivelato il libro secondo Verità, a conferma delle Scritture  rivelate prima e a loro protezione. Giudica dunque fra loro secondo quel che Dio ha rivelato e non seguire i loro desideri a preferenza di quella verità che t’è giunta. A ciascuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (Corano, 5, 46-48).

 La ripresa testuale operata da Lessing degli ultimi versi di questo passo coranico in cui si legittima la pluralità di vie e si invita a instaurare una nobile gara
volta a primeggiare nelle opere buone è troppo calzante per non ipotizzare, con fondamento, una derivazione diretta. Del resto in quel gli anni furono compite ben due traduzioni tedesche del Corano, una di David Friederich Megerlin (1772) (utilizzata anche da Goethe per il dramma incompiuto intitolato Mahomet), l’altra, uscita un anno più tardi, di Friedrich Eberhard Boysen. Le incontestabili somiglianze pongono però in luce anche l’esistenza di radicali differenze. Nella moderna cultura occidentale la convivenza e la reciproca tolleranza appaiono risolvibili solo mettendo tra parentesi o sospendendo a tempo indeterminato il problema della verità. La questione nella versione della parabola proposta da Nathan troverà risposta fra «mille e mill’anni» in  quanto ha perduto importanza, specie se già risolta attraverso una tensione diretta verso il conseguimento di una moralità adulta e autonoma («Gareggiate tra voi nel mettere in evidenza la virtù dell’anello»). Il costituirsi delle comunità religiose ebraica, cristiana, musulmana, appare perciò tratto marginale, visto che nel suo vertice la religione non è altro che moralità legata a imperativi universali i quali sono per definizione comune a tutti gli uomini. La conclusione inevitabile sta nell’affermare che la rivelazione è da intendersi appunto in forma pedagogica, via diretta al raggiungimento di uno stadio di «uscita dalla minor età» in cui l’umanità farà il bene per il solo amore del bene e in cui la virtù sarà il premio di se stessa (cfr. supra, L’educazione del genere umano, n. 85).
Le conseguenze di una simile impostazione sarebbero state tratte con assoluta coerenza da Immanuel Kant, là dove afferma che la religione morale non può che portare all’annullamento o alla radicale relativizzazione delle vicende che hanno costituito le singole comunità religiose: «Se una religione morale (che non consiste in dogmi e in osservanze ma in una disposizione del cuore a sostenere tutti i doveri umani come comandi divini) deve essere fondata, bisogna che tutti i miracoli che la storia accompagna alla sua introduzione rendano infine superflua la stessa fede nei miracoli» (I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, B. 116). Va precisato che il riferimento ai miracoli qui sta a indicare una dimensione di maggior portata, valida anche per religioni come l’Islam che per fondarsi non fanno appello ad alcun miracolo se non quello contenuto nello stesso darsi della rivelazione (cfr. Corano 17,88); infatti l’osservazione kantiana si estende a tutte le vicende che hanno condotto alla costituzione di singole comunità religiose. A fronte delle molte fedi, la religione non può essere che unica, da ciò consegue l’inessenzialità dell’esistenza di varie comunità di credenti: «non esiste che una sola (vera) religione, ma ci possono essere diverse specie di fedi. Si può aggiungere che nelle diverse chiese è possibile trovare l’unica e stessa religione, nonostante
le diversità delle loro credenze particolari» (ivi, B. 154). Perciò ogni chiesa (cioè ogni specifica comunità religiosa) in quanto tale, manca del «contrassegno più importante della sua verità», fondandosi su una fede rivelata che, in quanto storica, «non è partecipabile universalmente in modo convincente» (cfr. ivi, B. 157). La via della tolleranza reciproca tra gli appartenenti alle varie tradizioni religiose, in un primo momento si appella all’incertezza di quale sia la religione vera; in un secondo tempo scopre la sostanziale inutilità di questa indagine in quanto quel che importa è compiere; e da ultimo infine conduce alla constatazione che il compiere la virtù per amore della virtù stessa relativizza non tanto la verità bensì l’esistenza stessa delle singole comunità religiose, le quali si presentano ormai più come un ostacolo che come una via al conseguimento dell’unica religione morale, la sola che è davvero uguale per tutti.

A questo punto si può tornare con frutto al passo della quinta sura coranica trascritto in precedenza e constatarne tutta la differenza di impostazione
rispetto alla riscrittura propostane da Lessing. Per il Corano la questione non sta affatto nello stabilire dove stia la verità, né tanto meno nel tener in sospeso fino all’ultimo giorno il discorso di quali tra i tre anelli sia il vero, né di quale comunità sia la migliore. Il punto in proposito è già del tutto chiaro:
«E a te abbiamo rivelato il Libro secondo Verità» (Corano, 5, 48) e «Voi [musulmani] siete la miglior comunità mai suscitata tra gli uomini» (Corano,
3,109). Nell’Islam per giustificare l’esistenza dell’«altro» e instaurare con lui rapporti pacificati non è perciò necessario annullarne o relativizzarne la diversità, come avviene invece allorché si afferma che dappertutto si dicono le stesse cose e si prescrivono gli stessi comportamenti («religione morale») e
che, di conseguenza, tutte le particolarità risultano o inessenziali o dannose. Il problema coranico è invece formulabile in questi termini: perché, nonostante
il fatto che in virtù della rivelazione coranica sia ormai del tutto chiaro dove stia la pienezza della verità, Dio vuole che sussistano comunità religiose
diverse da quella musulmana («Se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto...» Corano, 5,48). Il Giudice  dell’ultimo giorno è dunque chiamato a spiegare le ragioni ultime della pluralità di fedi che caratterizza la storia fino al suo termine. Il discorso è dunque incentrato proprio su quei tratti che sarebbero stati considerati del tutto secondari nell’impostazione illuministica. Per il Corano il «mistero» da svelare sta nello spiegare i modi in cui possono coabitare comunità religiose particolari, contraddistinte da una intrinseca componente di diversità, proprio a partire dalla convinzione che si sa già ora dove sta la verità. Certezza quest’ultima che non esclude l’esistenza di una forma di tolleranza religiosa sia pur marcatamente diversa da quella elaborata dalla moderna cultura occidentale.

Piero Stefani

Alle "Chicche"