APPROFONDIMENTI CULTURALI - XLVIII               -                                     (ANNO XXIII - N.2)


ERMENEUTICA BIBLICA E GRAMMATICA EBRAICA IN SPINOZA [1]

    Prima di affrontare l'argomento di questa lezione (cosa che farò riprendendo in forma concisa e semplificata alcuni temi del mio libro Scintille ebraiche. Spinoza, Vico e Benamozegh, ETS Edizioni, Pisa 2002), vorrei dare qualche rapida notizia sul filosofo del quale mi accingo parlare. Barukh Spinoza nacque nel 1632 ad Amsterdam da una famiglia marrana emigrata dal Portogallo all'inizio del secolo. Ricordo che "marrani" (cioè "porci" in castigliano) venivano detti quegli ebrei che, a partire dalla fine del Quattrocento, erano stati costretti a convertirsi e che pure avevano mantenuto, in segreto, la loro fede e le loro pratiche religiose. Ma, privi di una qualunque guida, essi praticavano un ebraismo molto poco ortodosso e pieno di elementi sincretistici: veneravano, per esempio, santa Ester (figura biblica adatta quant'altre mai ad essere la loro patrona). Alcuni di loro fuggirono però dalla penisola iberica per cercare altrove, per esempio ad Amsterdam (o qui in Toscana, a Livorno) un luogo dove poter essere liberi di vivere da ebrei.
    Ma, per quel che riguarda l'Olanda, il contesto calvinista in cui si ritrovarono pose loro nuovi problemi, in un certo senso opposti a quelli precedenti. Ora venivano accettati come ebrei, ma dovevano essere ebrei ligi (in modo, se posso dir così, calvinista!): questo il prezzo per essere accettati. Per rieducarli furono allora chiamati anche rabbini da fuori, per esempio da Venezia. E per questo stesso motivo ci furono in quegli anni tanti casi di cherem, di "scomunica", o forse piuttosto di "bando di espulsione". Infatti, non si trattava tanto di scomuniche per motivi religiosi, ma di sanzioni amministrative (tanto è vero che venivano emanate non dai rabbini, ma dagli anziani della comunità) che avevano per l'appunto lo scopo di mantenere e rafforzare l'ordine interno. In genere - ma non sempre - tutto si risolveva in modo abbastanza indolore. È evidente comunque che questa situazione di sradicatezza fu un terreno propizio perché si sviluppasse un atteggiamento diverso nei confronti della religione. Il marranesimo è indubbiamente una delle matrici del moderno pensiero critico e non è un caso che proprio Spinoza, un discendente di marrani, sia stato uno degli iniziatori di un approccio storico-critico nei confronti della Bibbia.
    Spinoza stesso fu colpito, nel 1656, da cherem. A differenza di tanti altri suoi correligionari, egli non cercò in alcun modo di essere riammesso in seno alla comunità ebraica, anzi visse questo bando quasi come una liberazione. D'altro canto, il filosofo non si convertì né al calvinismo né ad altra confessione cristiana. Si tratta dunque di un caso, più unico che raro per quei tempi, di un uomo non appartenente a nessuna comunità religiosa. Egli, tuttavia, si avvicinò in un certo senso al cristianesimo, o, più precisamente, a sette cristiane ereticali (come i sociniani) che non credevano alla divinità di Gesù, ma ne riducevano il messaggio al solo insegnamento morale. Così fa appunto anche Spinoza in una delle pochissime opere pubblicate in vita, cioè nel Trattato teologico-politico, che risale al 1670.
    Il capolavoro di Spinoza, l'Etica, fu invece pubblicata, insieme ad altre sue opere, nel 1677, cioè nell'anno stesso della morte di Spinoza, a cura di un gruppo di amici. Il titolo dell'Etica contiene anche un'articolazione dell'opera nelle sue cinque parti. Esso suona: Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico e distinta in cinque parti, nelle quali si tratta: 1 - Di Dio; 2 - Della Natura e dell'Origine della mente; 3 -Dell'Origine e della natura degli Affetti; 4 - Della Schiavitù Umana, ossia delle Forze degli Affetti; 5 - Della Potenza dell'Intelletto, ossia della Libertà Umana.
    Come si vede dal titolo della prima parte, quest'"etica" è anche una metafisica: essa tratta anche - anzi, prima di tutto - dell'Ente Sommo, che appunto è Dio, unica Sostanza. Qui Spinoza si discosta da Cartesio (l'iniziatore del razionalismo moderno, cioè di quella corrente nella quale anche Spinoza può essere fatto rientrare), il quale aveva distinto una sostanza pensante (res cogitans) e una sostanza estesa (res extensa). Pensiero ed estensione non sono invece per Spinoza che attributi dell'unica sostanza, gli unici due che possiamo conoscere degli infiniti che essa ha. L'"architettura" metafisica di Spinoza si determina ulteriormente, a partire dalla sostanza e dagli attributi, nei modi, che sono le cose singole. Noto per inciso che questa struttura metafisica è stata talvolta interpretata (già ai tempi di Spinoza, da un certo Wachter e da Leibniz, e poi per esempio dal rabbino livornese Benamozegh, a fine Ottocento) come una ripresa secolarizzata della qabbalà.
    Ma il Dio di Spinoza è davvero solo il "Dio dei filosofi"? Quest'espressione, ricordo, è del suo contemporaneo Pascal, che contrapponeva il Dio biblico appunto al Dio dei filosofi, per esempio e in particolare al Dio di Cartesio. Spesso Spinoza è stato considerato addirittura un filosofo ateo o panteista: la Natura è la totalità delle cose e Dio non è altro che questa totalità. Ma, tenendo anche conto che Spinoza distingue fra Natura naturans e Natura naturata, credo sarebbe meglio definire Spinoza non "panteista", bensì "panenteista": tutto è in Dio. Nel riconoscerci "parte" di questo tutto (necessario) sta per Spinoza l'unica via di liberazione (talvolta sono stati tentati anche accostamenti con le religioni orientali). È in questo senso, peraltro assai particolare, che l'Etica è proprio un'"etica". Lo si vede in particolare nella quinta parte dove, per indicare quella via di liberazione, Spinoza ha degli accenti quasi "mistici" e parla, in particolare, di "amore intellettuale di Dio". (E anche in questo caso, naturalmente, non sono mancati, nella letteratura critica, gli accostamenti alla qabbalà).
     Ma l'opera da prendere in considerazione per discutere dell'atteggiamento di Spinoza verso la Bibbia non è tanto l'Etica, quanto l'altra sua opera già menzionata, pubblicata anonima nel 1670. Il titolo completo suona: Trattato teologico - politico, in cui sono contenute alcune dissertazioni con le quali si mostra che la libertà di filosofare non solo può essere concessa salve restando la religione e la pace dello Stato, ma non può essere tolta, se non insieme alla pace dello Stato e alla stessa religione. Nel Seicento, si trattava di una tesi decisamente audace: Spinoza propugna uno stato liberale che permetta a chi vuole di ricercare Dio in maniera filosofica, senza essere costretto a seguire alcuna religione rivelata.
     Ma la Bibbia stessa permette un atteggiamento così "laico"? Spinoza pone il problema fin dalla prefazione dell'opera, sottolineando al contempo i rischi delle posizioni "integraliste": «Riflettendo su queste cose - cioè che il lume naturale (la ragione) è da molti non soltanto disprezzato, ma condannato come fonte di empietà; che le invenzioni degli uomini sono ritenute insegnamenti divini; che la credulità è scambiata per fede e che le controversie dei filosofi sono agitate nella Chiesa e nella curia con grandi moti degli animi -, e osservando come di qui nascano odi fierissimi, divisioni, dalle quali gli uomini passano facilmente ai conflitti, e molte altre conseguenze che qui sarebbe troppo lungo enumerare, decisi di esaminare di nuovo la Scrittura con animo libero e imparziale, e di non affermare nulla intorno ad essa e di non ammettere come sua dottrina nulla che non fosse da essa stessa chiarissimamente insegnato» (trad. di Alessandro Dini, Rusconi, Milano 1999, p. 51).
    Anche facendo ricorso alla sua conoscenza della lingua e della cultura ebraica, Spinoza cerca di elaborare un metodo di interpretazione della Bibbia, cioè un'ermeneutica biblica, basato sulla Bibbia stessa. La sua formulazione ha luogo nell'importantissimo cap. VII intitolato appunto Dell'interpretazione della Scrittura. Nei capitoli precedenti (I-VI), Spinoza esamina alcuni fenomeni della religione ebraica (la profezia, l'elezione, la legge, la funzione delle cerimonie religiose e delle narrazioni bibliche, i miracoli etc.) presupponendo già di fatto il suo metodo prima ancora di presentarlo esplicitamente. Al capitolo VII ne fanno poi seguito alcuni (VIII-XI) nei quali i principi metodologici dei questa nuova ermeneutica biblica vengono applicati al Pentateuco e ad altri libri. Qui Spinoza argomenta che Mosè non può essere l'autore del Pentateuco e sostiene che la redazione di questo libro, come quella dei Profeti anteriori e di Rut, è postesilica ed è finalizzata alla rifondazione di Israele. Tale redazione, comunque, si basava, secondo Spinoza, su fonti precedenti. Quindi si può senz'altro considerare Spinoza come un iniziatore del metodo storico-critico.
    I capitoli successivi (XII-XV) argomentano che la Bibbia è sacra solo in quanto dà insegnamenti morali, e li dà non in forma filosofica, ma in forma poetica, cioè raccontando storie, le quali non vanno prese alla lettera, ma semplicemente per il messaggio morale che esse veicolano. Gli ultimi cinque capitoli dell'opera (XV-XX) hanno un taglio più marcatamente politico: in essi viene fatta un'apologia dello stato liberale, poi ripresa anche nel Trattato politico (un'opera incompiuta e pubblicata nella già citata edizione postuma).
    Concentriamoci ora sul fondamentale capitolo VII. In esso si legge fra l'altro: «Il metodo d'interpretazione della Scrittura non differisce dal metodo di interpretazione della natura, ma concorda del tutto con questo. Infatti, come il metodo d'interpretazione della natura consiste essenzialmente nell'apprestare la storia della natura, dalla quale, in quanto base di dati certi, traiamo le definizioni delle cose naturali, così, per interpretare la Scrittura, è necessario allestire la sua storia genuina e trarre da questa, come da dati certi e da principi, con passaggi legittimi, il pensiero degli autori della Scrittura» (trad. cit., pp. 279-281). Con queste parole Spinoza propone uno studio scientifico della Bibbia, prendendo a modello la nuova scienza della natura, nata nel suo secolo con Cartesio, Bacone, Galileo, etc. Il riferimento è soprattutto allo sperimentalismo di Bacone, al quale rimandano le stesse espressioni interpretatio naturae e historia naturae. A proposito di quest'ultima è opportuno accantonare un possibile equivoco: non si tratta di «storia» nel significato per noi più usuale della parola, quello di «sviluppo diacronico», bensì del significato etimologico di «indagine osservativa» (questo è appunto ciò che significa il greco historìa, e del resto ancora oggi parliamo in questo senso di un «museo di storia naturale»).
    Secondo Spinoza, per fare uno studio scientifico della Bibbia bisogna dunque procedere con un metodo del tutto simile a quello che viene usato per studiare scientificamente la natura: occorre partire prima di tutto da una raccolta di materiali e poi trarre da questi, per induzione, dei principi generali di tipo morale o, in misura molto minore, di tipo speculativo che si possono ricavare dal testo.
    Vediamo ora quali sono gli elementi necessari per fare una «storia» della Scrittura, cioè una sua indagine scientifica. Prima di tutto sono necessarie conoscenze linguistiche, cioè nozioni relative alle lingue in cui la Bibbia è stata scritta, ovvero l'ebraico ed il greco. Spinoza insiste molto sull'importanza dell'ebraico anche per il Nuovo Testamento, composto da uomini che, anche quando scrivevano in greco pensavano appunto in ebraico.
    Poi bisogna procedere ad una classificazione degli enunciati, la quale deve essere condotta - precisa Spinoza, introducendo alcune distinzioni anche filosoficamente assai rilevanti - solo in riferimento al loro significato, cioè al loro uso nella lingua, non in base al loro valore di verità. Per esempio, il problema non è la verità dell'affermazione secondo cui «Dio è fuoco», ma la sua compatibilità con quella che Dio è invisibile. Siccome, tuttavia, l'affermazione «Dio è fuoco» può indicare anche che Dio è geloso (Spinoza cita Gb 31, 12), è in questo senso che essa andrà intesa, nonostante che dal punto di vista della ragione non sia nemmeno ammissibile concepire Dio come affetto da passioni. Ma, almeno a questo livello d'indagine, si tratta, come detto, solo del significato degli enunciati, non della loro verità.
    Il terzo punto di questo metodo scientifico di analisi della Bibbia è la contestualizzazione e la tradizione dei testi, cioè come essi vengono trasmessi. Qui entra in gioco la «storia» anche in senso diacronico. Ecco un esempio di Spinoza (interessante anche perché coinvolge un confronto fra ebraismo e cristianesimo). In Mt 5, 39 Gesù dice di porgere l'altra guancia. E si tratta di un insegnamento che risulta senz'altro indigesto ad un ebreo, come Spinoza era o almeno era stato. Ma anche in questo caso il filosofo prende in considerazione l'enunciato non per il suo valore di verità, ma solo per il suo significato e dal punto di vista della coerenza con altri insegnamenti biblici. Siccome Gesù, sempre in Mt 5, ai versetti 17 e sgg., dice che non vuole abolire la legge di Mosè, e siccome questa legge raccomanda la giustizia (anche se non la vendetta), il fatto di porgere l'altra guancia crea un problema di coerenza. Allora Spinoza si richiama alle Lamentazioni, 3, 25-30, dove Geremia usa la stessa espressione di Gesù in riferimento ad un momento storico in cui non c'è un referente a cui chiedere giustizia, poiché non esistono i tribunali. Allora - conclude Spinoza - anche l'insegnamento di Gesù, così come quello di Geremia, va limitato ad un periodo di oppressione e d'ingiustizia, quando chiedere giustizia sarebbe impossibile e dunque la sopportazione diventa il male minore. Invece, in uno stato ben ordinato, dove la giustizia è tutelata, non solo è possibile, ma è anche doveroso chiederla.
    Una volta fatta questa «storia» della Scrittura, si può procedere - dice Spinoza - a ricavare gli insegnamenti dei testi biblici, partendo dalle cose più universali (come l'esistenza di Dio e il principio dell'amore), e con molta maggior certezza per quanto riguarda i precetti morali che non per le questioni speculative.
    Da tutto ciò si comprende una tesi di Spinoza (che per alcuni versi può richiamare Lutero): la Scrittura va interpretata ab ipsa sola, cioè a partire solo da essa stessa, senza dar credito ad alcuna autorità, come potrebbe essere, nell'ebraismo, quella dei farisei oppure, nel cattolicesimo, quella della chiesa romana. C'è però una tradizione che Spinoza riconosce, e la cosa qui c'interessa particolarmente, perché questa tradizione è quella della lingua: nessuno - argomenta Spinoza - sarebbe in grado di falsificare a suo piacimento il significato di una parola.
    Ma proprio di qui nascono nuove difficoltà, connesse proprio a quello studio dell'ebraico che, come si è visto, è un elemento per Spinoza assolutamente imprescindibile per lo studio della Bibbia. La prima difficoltà dipende dal fatto che l'ebraico, come altre lingue antiche, è una lingua morta (anche se poi sarebbe «rinata» a fine Ottocento, ma Spinoza non poteva saperlo e poi si tratta comunque di una lingua diversa). «Nessuno degli scrittori della Bibbia - osserva Spinoza - ci ha lasciato un dizionario, o una grammatica o una retorica» (trad. cit., p. 301). Per esempio, per quanto riguarda il «dizionario», il significato preciso di tanti nomi di animali ci è ignoto. Ma Spinoza insiste soprattutto sul fatto che non abbiamo una «fraseologia», ossia che spesso non comprendiamo le «locuzioni» e i «modi di dire» dell'ebraico biblico. Perché insiste proprio su questo? Perché questi idiomatismi «orientali» vanno presi per quel che sono, cioè solo come forme retoriche.
    Ad esempio, già nel cap. I, nel contesto di un'ampia ricerca lessicografica finalizzata a chiarire il fenomeno della profezia, Spinoza fa l'esempio di quel ruach Elohim di cui si parla in Gen 1, 2. "Spirito di Dio"? No, dice Spinoza, lì ruach significa semplicemente «vento» e l'attribuzione a Dio indica solo un superlativo (come se uno dicesse «un vento della Madonna»): un vento fortissimo. Ancora più esplicito il cap. IV, dove si parla dei "miracoli" - fra virgolette appunto, perché si tratta dei cosiddetti miracoli: per Spinoza non c'è, non ci può essere nulla che fuoriesca dall'ordine necessario della natura. I «miracoli» di cui parla la Bibbia non sono stati in realtà altro che eventi inconsueti (ma non per questo soprannaturali) che colpirono l'immaginazione di chi li ha descritti utilizzando per l'appunto uno stile poetico e retorico, come Spinoza afferma a più riprese. Ecco perché Spinoza insiste tanto sulla mancanza di una retorica ebraica codificata.
    Ma anche la messa in luce degli altri motivi di ambiguità della lingua ebraica conduce in questa direzione. Si tratta, dice Spinoza, del possibile scambio di alcune lettere alfabetiche come le gutturali, la polisemia di alcune congiunzioni come
ו (waw) (che serve indifferentemente a congiungere e a disgiungere) e כי (ki) ("perché", "benché", "siccome", "quando", etc.). Forse Spinoza insiste anche troppo su questi elementi di oscurità della lingua ebraica. Lo fa - oserei dire - per tirare l'acqua al suo mulino, cioè per argomentare la sua tesi di fondo secondo cui sappiamo talmente poco su questo testo che possiamo solo ricavarne degli insegnamenti morali.
    Un buon esempio dell'enfasi eccessiva di Spinoza sulle difficoltà linguistiche dell'ebraico è quello che chiama in causa la povertà e la peculiarità del sistema verbale ebraico: per esempio, Spinoza dice che "passato" e "futuro" vengono usati in modo indifferente. Ma lo scambio in questione è ben regolato, come sappiamo - e come anche Spinoza sapeva! - dalla waw inversiva.
    Altre difficoltà della lingua ebraica dipendono dall'assenza delle vocali e dei segni d'interpunzione, che sono stati aggiunti solo in epoca medioevale. Per Spinoza l'opera dei "puntatori" è assolutamente inaffidabile, perché troppo più tarda rispetto alla redazione originaria del testo. Vediamo un esempio di Spinoza. In Gen 47,31 si dice che il vecchio Giacobbe si piega su una cosa che viene nominata con una parola di tre consonanti:
מ (mem), (teth), (he). I massoreti vocalizzano questo termine come mittà "letto": Giacobbe, dunque, si appoggia sul letto. Ma la Lettera agli Ebrei, quando, al capitolo 11, 21 cita quel passo veterotestamentario, parla invece (in greco, ovviamente) di un bastone. Come mai? Perché - osserva Spinoza - l'autore della Lettera agli Ebrei si basa su una vocalizzazione diversa da quella che sarebbe poi stata fissata dai massoreti: non mittà, bensì matté, che significa appunto "bastone". Di per sé la cosa non ha molta importanza, anche se Spinoza preferisce la lezione "bastone", perché Giacobbe non era poi così vecchio: aveva solo bisogno del bastone per appoggiarsi. Tuttavia l'esempio è molto interessante per mostrare come una vocalizzazione diversa possa portare ad un'interpretazione diversa. Dal punto di vista metodologico, per risolvere l'ambiguità, qui Spinoza mette in atto lo stesso procedimento di un confronto intertestuale che ha usato, come si è visto, anche per l'espressione "porgi l'altra guancia". Tuttavia, in tanti altri casi questo procedimento non è possibile e, dato che la puntazione massoretica è inaffidabile, spesso non abbiamo - conclude Spinoza - il modo di risalire al significato originario del testo stesso.
    Infine, ci sono - dice Spinoza - delle difficoltà più genericamente filologiche che si aggiungono a quelle di tipo linguistico appena elencate. Ad esempio, ignoriamo l'autore di molti libri. Inoltre, ignoriamo spesso il contesto ed il "genere letterario". Per spiegare questo importante principio della rilevanza del "genere letterario" per la corretta interpretazione di un testo, Spinoza porta, fra gli altri, un esempio particolarmente efficace: come Elia, anche Orlando vola. Ma i testi in cui si parla di questi voli rientrano in "generi letterari" diversi: l'Orlando Furioso è - dice - un testo divertente, la Bibbia, invece, un testo che deve trasmettere insegnamenti morali. E dunque lo stesso tipo d'episodio e d'immagine ha un significato completamente diverso.
    Ultimo motivo di difficoltà è il fatto che alcuni testi ci sono giunti solo in traduzione, com'è il caso, secondo Spinoza, del Vangelo di Matteo, e della Lettera agli Ebrei, che sarebbero stati scritti originariamente in ebraico, o di Giobbe, che sarebbe stato scritto originariamente in aramaico.
    In stretta contiguità, probabilmente anche cronologica, col Trattato teologico-politico si pone un'altra opera spinoziana, il Compendio di grammatica della lingua ebraica. Spinoza aveva cominciato a scriverla per dare ai non ebrei uno strumento che permettesse loro un'analisi scientifica della Bibbia, ma l'ha lasciata incompiuta (manca per esempio, purtroppo, la parte sulla sintassi). A pubblicarla hanno pensato i suoi amici nella menzionata edizione postuma. In italiano non è ancora disponibile, ma c'è un'ottima traduzione francese curata da Joël Askénazi e Jocelyne Askénazi-Gerson: Abrégé de grammaire hébraique, Vrin, Paris 1968.
    Più volte, nel corso dell'opera, Spinoza insiste sul fatto che la sua è la prima grammatica non della Bibbia, ma dell'ebraico. Si potrebbe pensare allora che, per elaborarla, egli abbia preso in considerazione anche altri testi ebraici, ovviamente più tardi, in particolare la Mishnà. Ma le cose non stanno così. La sua base testuale è solo la Bibbia, ma, partendo da essa, egli cerca di ricostruire una struttura profonda che sia in grado di eliminare le presunte irregolarità presenti nella Bibbia. In generale, non si può considerare corretta o scorretta una forma grammaticale - dice Spinoza - solo perché è attestata o non è attestata nella Scrittura. A guidarlo in questo tentativo (indubbiamente problematico) è quel meccanismo fondamentale dell'ebraico che sono i mutamenti vocalici.
    Le categorie grammaticali latine, cioè le otto parti del discorso, non valgono - dice Spinoza - per una lingua come l'ebraico; a suo avviso, invece, tutte le parole ebraiche (salvo pochissime, come le interiezioni) sono nomi, dove per "nome" si intende "una parola con la quale significhiamo o indichiamo qualcosa che cade sotto l'intelletto", ma a "cadere sotto l'intelletto" possono essere "sia delle cose, i loro attributi, i loro modi e le loro relazioni, sia delle azioni e i modi e le relazioni delle azioni". Il fatto che anche nomi non sostantivi, ad esempio le preposizioni, abbiano il plurale serve a Spinoza per dimostrare questa tesi. Ma vale anche la pena di notare qualcosa che riguarda la distinzione, nel passo appena citato, dei vari tipi di nomi: le categorie grammaticali proposte da Spinoza richiamano da vicino le sue categorie metafisiche (sopra rapidissimamente nominate): sostanza, attributi e modi.
    Qualcosa di simile vale anche per il modo in cui Spinoza descrive quella specie di "genitivo alla rovescia" che è lo "stato costrutto": per esempio, nell'espressione bet Elohim ("casa di Dio"), Elohim ("Dio") fa da "sostanza", mentre bet ("casa di", costrutto di bajit "casa") è un modo della sostanza. Qui l'uso delle categorie metafisiche spinoziane funziona talmente bene che si potrebbe perfino avanzare l'ipotesi che esse siano state almeno in parte ispirate proprio dalle strutture della grammatica ebraica. Certo, è un'ipotesi audace, ma nella prefazione alla citata traduzione francese ne viene proposta una ancora più audace: quella secondo cui tutto l'universo potrebbe essere considerato, secondo la concezione di Spinoza, come un'immensa catena di costrutti che si appoggiano sul nome proprio di Dio, cioè sul Tetragramma.
    Altri casi in cui Spinoza usa le proprie categorie filosofiche per interpretare strutture grammaticali dell'ebraico riguardano i binjanim, le varie diatesi verbali. Un caso particolarmente interessante è quello dello hitpa'el, cioè del "reciproco" o "riflessivo". Spinoza descrive questo binjan in termini di "causa immanente", una nozione la cui rilevanza metafisica, nel sistema di Spinoza, è difficilmente esagerabile visto che egli la usa per definire Dio stesso nel suo rapporto col mondo, dicendo appunto che Dio è "causa immanente" e non "transitiva" del mondo (il che esclude ogni idea di creazione). Un'altra osservazione sempre sullo hitpa'el: Spinoza lo considera come forma riflessiva sia dell'attivo semplice (qal) sia dell'attivo causativo (hif'il): nel primo caso il soggetto fa a se stesso qualcosa, nel secondo fa fare a se stesso qualcosa, ossia si modifica. Al primo caso non può corrispondere ovviamente alcun binjan passivo, ma al secondo sì, quando il soggetto lascia che gli venga fatto fare qualcosa. Ecco allora un'inedita, ottava forma di binjan presentata da Spinoza (che cita quale esempio Nm 2, 33): lo hotpa'el.
    Quanto detto finora su questa grammatica ebraica penso sia sufficiente a farci concordare con gli amici di Spinoza che, pubblicando quest'opera, la presentarono come una grammatica "secondo l'ordine geometrico" (così come lo è l'Etica). Ma essi la presentarono anche come una grammatica della "lingua santa". In questo caso si potrebbe invece non essere d'accordo. Nel cap. XII del Trattato teologico-politico Spinoza afferma chiaramente che la lingua, anzi, che la Scrittura stessa può essere detta "santa" solo nel senso che "santi" sono gli insegnamenti morali che dà. E nel cap. IX ridicolizza i cabbalisti che idolatrano la lettera, anzi, le lettere dell'alfabeto ebraico. Quindi, chiamare l'ebraico, in un contesto spinoziano, "lingua santa" pare assai discutibile. Tuttavia, mi piace concludere con un'interpretazione davvero singolare di un grande personaggio dell'ebraismo italiano dell'Ottocento. Non si tratta, come si potrebbe pensare, del già citato Benamozegh, che cercò in qualche modo di recuperare Spinoza all'ebraismo, ma di Shemuel David Luzzatto, che polemizzò con Benamozegh su tutto, compresa l'interpretazione di Spinoza. Luzzatto, infatti, non mostra alcun apprezzamento per la filosofia spinoziana, da lui bollata come atea. Nonostante ciò, siccome lo studio stesso della lingua ebraica produce, secondo lui, atteggiamenti virtuosi, Luzzatto arriva a dire che il comportamento morale di Spinoza, nonostante le sue credenze e i suoi pensieri, dipende proprio "soprattutto dalla lingua santa, che egli amava, tanto che tra le sue opere si trova un breve ma importante libro di grammatica".
 

Leonardo Amoroso


[1] Questo testo è la sbobinatura, rivista dall’autore, della lezione che Leonardo Amoroso (docente all’Università di Pisa) ha tenuto a Firenze il 1 gennaio 2009 nell’ambito di un corso di ebraico biblico