approfondimenti culturali – l                                                           (anno xxiv, n. 1)

 

 

Abramo nel Corano e nella tradizione islamica

 Relazione tenuta  il 5 gennaio 2010 da Ida Zilio Grandi nell’ambito del corso di ebraico biblico dedicato  alla figura di Abram. Ringraziamo l’autrice per il permesso datoci di pubblicare il suo bel testo.

 Abramo (Ibrâhîm in arabo) è una delle massime figure di profeta citate nel Corano. È ricordato spesso; la sua storia compare infatti in 25 delle 114 sure di cui si compone il Libro dell’Islam, e la sura 14 porta il suo nome, «sura di Abramo», pur essendo dedicata anche ad altri personaggi e ad altri temi. L’unica figura citata più spesso di Abramo è Mosè, ma questo non significa affatto che, nel messaggio islamico, Abramo sia secondo a Mosè per importanza.

Un inciso: le narrazioni coraniche dedicate ai profeti biblici, che riecheggiano le Scritture canoniche o apocrife dei monoteismi precedenti, sono davvero molte. D’altro canto, dal punto di vista islamico, nel Corano è sempre lo stesso Dio che narra, e Dio ha narrato nuovamente le stesse storie, che poi sono le storie delle Sue stesse gesta nei confronti dell’umanità. Perché lo ha fatto? Non solo per ricordarle ma anche e soprattutto per restituirle alla loro forma vera, non corrotta dalle alterazioni più o meno intenzionali operate dalla memoria delle comunità umane che hanno preceduto l’Islam. Se vi sono discrepanze tra il Corano e i libri anteriori, i teologi musulmani le ritengono importantissime, perché ogni discrepanza mette in rilievo l’assoluta verità del Corano e l’imperfezione degli altri Libri sacri; è come se le narrazioni coraniche sottoponessero a esame le narrazioni altrui e pronunciassero una sentenza inderogabile sul loro contenuto.

Tornando ad Abramo, il Corano e l’Islam in generale lo considerano, evidentemente, lo stesso Abramo della Bibbia, e le sue vicende sono pressappoco le stesse. L’origine dei vari racconti dedicati a questa figura, è certamente biblica, diretta o indiretta, fonti eventualmente trasformate da una trasmissione orale di lunga durata che ha incorporato numerosi midrashim. Però, le narrazioni coraniche mostrano uno scarto nei particolari e nei contesti, grande o piccolo, uno scarto che in definitiva rende le figure bibliche più adeguate e conformi  al messaggio islamico. 

Un esempio: anche nel Corano troviamo Abramo che abbandona il proprio paese per raggiungere la terra della sua vocazione; ma il Libro arabo insiste sulla rottura drastica tra Abramo e il suo popolo, un popolo di idolatri, a significare la necessità di frattura con i miscredenti anche se contribuli o familiari; è detto perfino che la sua gente voleva ucciderlo, per lapidazione (sura di Maria, 19,41) oppure dandolo al rogo (sura dei Profeti, 21,68). In questo modo il Corano fa di Abramo uno specchio di Muhammad che romperà il legame di sangue con i meccani, e a sua volta se ne andrà e compirà l’egira.

Ecco come la sura dei Profeti racconta la frattura tra Abramo e il suo popolo:

«Ricorda quando egli disse a suo padre e al suo popolo: “Che cosa sono questi simulacri ai quali siete devoti?” Risposero: “Abbiamo trovato che anche i nostri padri li adoravano”. “Ebbene – disse - voi e i vostri padri siete in manifesto errore”. Chiesero: “Ci porti la verità o stai scherzando?” Al contrario – rispose - il vostro Signore è il Signore dei cieli e della terra, che Egli creò, e di questo io vi porto testimonianza”. “Giuro per Dio che tramerò un’insidia contro i vostri idoli quando ve ne sarete andati, quando avrete voltato le spalle”. E li ridusse tutti in pezzi tranne il più grande perché poi, magari, lo accusassero. “Chi ha fatto questo ai nostri dèi? – dissero. –  È uno dei colpevoli”. Alcuni risposero: “Abbiamo udito un giovane parlare male di loro; si chiama Abramo”. Gridarono: “Portatelo qui, sotto gli occhi degli uomini, perché possano testimoniare contro di lui”. Chiesero: “Sei stato tu, Abramo, che hai fatto questo ai nostri dèi?” Rispose: “No, è stato il più grande di loro. Interrogate questi idoli, se possono parlare”. Allora tornarono in sé ed esclamarono: “I colpevoli siete voi”. Ma poi ricaddero nell’antico errore e gli dissero: “Sai bene che non parlano”. Allora Abramo disse: “Adorate chi non sa giovarvi né recarvi danno, anziché Dio? Vergogna a voi e a quelli che adorate anziché Dio. Non capite?” Gridarono: “Bruciatelo, e soccorrete i vostri dèi, se volete fare qualcosa”. Ma Noi dicemmo: “Fuoco, sii fresco e dolce per Abramo”. Volevano fargli del male ma Noi li rendemmo i massimi perdenti, e salvammo lui e Lot nella terra benedetta da Noi per i mondi; gli abbiamo donato Isacco e Giacobbe e di tutti facemmo dei buoni, delle guide che indicassero agli uomini il Nostro ordine. Abbiamo rivelato loro le buone azioni da fare, la preghiera da compiere e l’elemosina da dispensare; essi adoravano soltanto Noi (21,52-74).

Le ultime parole della citazione offrono lo spunto per un altro esempio che riguarda i figli di Abramo: il Corano ricorda Isacco, nato da madre anziana e sterile; e in molte ricorrenze ricorda anche Ismaele, ma senza mai alludere alla sua nascita e tantomeno al ripudio di Agar su richiesta di Sara, né all’espulsione di Ismaele dall’eredità di Abramo. Il Libro dell’Islam afferma semplicemente che Abramo e Ismaele giunsero alla Mecca, restaurarono o costruirono l’edificio della ka‘ba, e insieme compiono un pellegrinaggio. Su questo punto torneremo alla fine.

Ancora un esempio: la sura della Vacca, la seconda, ricorda un patto di Abramo con Dio, che prevede da parte di Abramo lo smembramento di corpi animali, in particolare degli uccelli (cfr. Gen 15,6 ss.); ma non c’è traccia del rito solenne che segna l’alleanza tra Abramo e il Signore, rito secondo il quale i contraenti dovevano camminare tra le parti smembrate degli animali sacrificali, così dichiarando che avrebbero accettato la sorte di quegli animali se avessero tradito il patto. Del tutto diversamente, nel Corano è detto:

 «Ricorda quando Abramo disse: “Signore mio, mostrami come ridoni la vita ai morti”. Dio disse: “Non sei credente?” “Sì – rispose Abramo, - Te lo chiedo perché il mio cuore si acquieti”. Dio disse: “Prendi quattro uccelli e poi falli a pezzi e metti un pezzo su ogni montagna, poi chiamali ed essi torneranno di corsa da te. Sappi che Dio è potente e saggio” » (2,260).

Restituendo quegli uccelli alla vita, il Signore fornisce ad Abramo una prova della resurrezione finale. La scelta degli uccelli non è casuale: infatti si armonizza con la vivificazione dell’uccello d’argilla operata da Gesù allo stesso scopo, appunto quello di convincere il proprio popolo sulla sorte escatologica (cfr. 3,49 e 5,110).

Ma la principale differenza tra l’Abramo biblico e l’Abramo coranico, quella che forma la vera peculiarità dell’Abramo islamico, risiede nella funzione profetica del patriarca.

 

La religione di Abramo

Come è noto, Genesi 12-25 non fa del patriarca un profeta nel senso che questo termine acquisterà nei testi biblici posteriori. Invece il Corano inserisce Abramo in un sistema profetico generale, sistematizzato e sviluppato nella dottrina. Secondo questa profetologia, l’unico Dio ha creato gli uomini affinché Gli rendano grazie e Gli offrano un culto, a Lui soltanto. Ma gli uomini sono incostanti, sono negligenti, sono pronti a dimenticare la loro vocazione creaturale monoteista, e così, continuamente nella storia, si volgono all’adorazione degli idoli, esseri diversi da Dio. Ma Dio, nella Sua clemenza e misericordia, non ha smesso di ricordare all’umanità ciò cui è chiamata: ha inviato ai diversi popoli dei profeti, incaricati, volta dopo volta, di restaurare i fondamenti del monoteismo originario. Tale è anche la missione di Abramo, che si presenta come uno degli anelli fondamentali di questa storia sacra. Storia sacra che risponde a un’economia dell’abitudine divina, la quale comporta un andamento ciclico della storia stessa: le varie epoche, dominate dalla presenza di un profeta, si richiamano a vicenda, e infine, elemento portante, richiamano tutte l’ultimo ciclo, cioè l’epoca musulmana, con le vicissitudini di Muhammad il profeta dell’Islam.

La sura delle Donne, la quarta, offre un passo rilevante al nostro proposito:

«Chi mai può scegliere una religione (dîn) migliore di questa: sottomettere il proprio volto a Dio facendo del bene ai propri simili (muhsin), e seguire la comunità di Abramo da monoteista (hanìfan)? Dio si è scelto Abramo come amico» (4,125).

Non è nuova l’idea di Abramo come amico di Dio, amico cioè khalîl, legato a Dio dalla fedeltà, da un vincolo profondo di stretta intimità e familiarità: il Corano riecheggia infatti Isaia 41,8 dov’è detto: «Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo, mio amico» (cfr. 2Cr 20,7; o Gc 2,23; e altri scritti intertestamentari e talmudici).

Ma nel passo coranico che abbiamo letto c’è dell’altro da segnalare. Qui Dio dichiara che non c’è religione migliore del seguire la comunità di Abramo (in arabo ittaba‘a millat Ibrâhîm). Il termine arabo che qui dice religione è dîn, e dîn nel lessico coranico, non vale per una religione tra le altre ma per la religione cioè l’Islam; pensiamo ad esempio alla sura della Famiglia di ‘Imrân, la terza, dove è detto che: «in verità, la religione (dîn), presso Dio, è l’Islam» (3,19).

In altri termini, la sura delle Donne dichiara che far seguito alla comunità religiosa di Abramo, seguirne le orme, adeguarsi e conseguire ad essa (ittaba‘a) equivale a osservare la religione islamica. Questo punto nodale è ribadito sempre nel medesimo passo della sura delle Donne, dove questa religione si configura come un «sottomettere il proprio volto a Dio»; ricordiamo: «chi mai può scegliere una religione (dîn) migliore di questa: sottomettere il proprio volto a Dio».

Ora, «sottomettere» è in arabo aslama, il verbo da cui deriva islâm, e indica una sottomissione che non è schiavitù ma un docile acconsentire, uno spontaneo assecondare, è corrispondere alla volontà di Dio con il cuore non umiliato ma pacificato (si ricordi l’affinità semantica tra islâm e salâm o «pace»). In sintesi, la religione migliore è quella sia abramitica sia, al tempo stesso, islamica.

A questo punto sorge una domanda: dalla prospettiva islamica, Abramo è musulmano? A tale domanda non possiamo che rispondere sì. Lo dichiara apertamente la già considerata terza sura o della Famiglia di ‘Imrân, che offre un altro passo molto interessante nel nostro contesto:  «Abramo non era né ebreo né cristiano ma monoteista, era sottomesso a Dio e non era un idolatra» (3,67).

Sottomesso a Dio è in arabo muslim, cioè, precisamente, «musulmano». Il passo prosegue affermando che: «tra gli uomini, i più prossimi ad Abramo sono quelli che l’hanno seguito, e anche questo Profeta [Muhammad] e quelli che credono, Dio è l’Amico dei credenti» (3,68).

In fondo, l’affermazione dell’islamicità di Abramo è perfettamente coerente con il dogma dell’unicità di Dio: se Dio è uno, anche la religione nel senso più autentico, nel senso di credo (e non di quello etico-giuridico), non può che essere una. Pensiamo alla sura dei Profeti, la ventunesima: dopo aver ripercorso le vicende di Mosè e Aronne, Abramo, Lot, Davide e Salomone, Giobbe, Giona, Zaccaria, Giovanni e Maria e altri ancora, si legge: «Questa vostra comunità (umma) è una comunità unica, e Io sono il vostro Signore» (21,92).

Dire che la religione di Dio è una, significa che ogni autentico convertito nella storia dell’umanità - e a maggior ragione ogni profeta - non può che essere, in qualche modo, un musulmano, parte integrante della comunità islamica. Come prova di ciò, consideriamo le ricorrenze coraniche della voce muslim (che, lo abbiamo già visto, vale per «musulmano»); e consideriamo le ricorrenza del verbo aslama («sottomettersi a Dio» ma anche «farsi musulmano») nelle sue declinazioni di genere e numero: ci accorgiamo che molte volte si tratta di Abramo. Un caso eloquente è offerto dalla seconda sura, della Vacca, dove l’islamicità di Abramo si coniuga all’idea della comunità religiosa unica:

 «Chi, tranne lo stolto, avversa la comunità di Abramo? Noi lo abbiamo prescelto in questo mondo, e nell’aldilà sarà tra i puri. Quando il suo Signore gli disse: “Sii sottomesso a Me (aslim [ cioè: convertititi all’islam]”, egli rispose: “Mi sono sottomesso (aslamtu) al Signore dei mondi” »(2,130-131).

La sura del Pellegrinaggio è perfino categorica: «Voi che credete, chinatevi, prosternatevi, adorate il vostro Signore e fate il bene affinché possiate prosperare, e combattete per Dio come Gli è dovuto. Egli vi ha prescelto e non vi ha imposto pesi gravosi nella religione (milla), la religione del vostro padre Abramo. Egli vi ha chiamati “i musulmani”, nel tempo andato e anche adesso, in questa rivelazione [quella coranica] » (22,77-78).

Detto questo, non ci dobbiamo meravigliare se il Corano fa un musulmano anche di Giuseppe figlio di Giacobbe; nella sura che gli è intitolata, la dodicesima, Giuseppe prega Dio così: «Tu sei il mio patrono nella vita terrena e nell’aldilà, fammi morire sottomesso a Te [oppure: da musulmano; in arabo sempre muslim]» ( 12,101). E anche di Noè, il quale, secondo la sura di Giona, la decima, dice al proprio popolo: «mi è stato ordinato di essere tra coloro che si sottomettono a Dio [oppure “dei musulmani”, min al-muslimîn]» ( 10,72).

D’altra  parte il Corano, nella sura della Stella, afferma che Muhammad non è un profeta che innova (bid‘ min al-rusul, cfr. Cor. 46,9) ma  «un ammonitore come gli ammonitori di prima (nadhîr min al-nudhur al-ûlâ)» ( 53,56). Riprendiamo la sura della Famiglia di ‘Imrân, il versetto dove è affermato che: «Abramo non era né ebreo né cristiano ma monoteista» (3,67).  I due versetti precedenti sono un appello agli ebrei e ai cristiani: «Gente del Libro, perché discutete su Abramo? Sia la Torah sia il Vangelo sono discesi dopo di lui, non capite? Voi siete coloro che discutono di quel che sanno, e allora perché discutete di quel che non sapete? Dio sa e voi non sapete […]» (3,65-66).

 Abramo rappresenta dunque uno stadio della religione che è anteriore alla Legge di Mosè e all’avvento di Gesù; cosicché non può essere rivendicato da nessuna delle due confessioni: «Abbiamo già visto più volte che il Corano definisce Abramo “monoteista”; lo fa nella sura delle Donne, dove è detto che  la religione migliore è quella di chi segue Abramo e i suoi da monoteista (hanîfan)» (4,125). E lo fa nella terza sura: «Abramo non era né ebreo né cristiano ma era monoteista (hanîf)» ( 3,67).

Un’ulteriore allusione al monoteismo di Abramo si trova in un passo più corposo, nella sura della Vacca, la seconda:

«Diranno: “Fatevi ebrei o cristiani e sarete ben guidati”. Rispondi: “Noi siamo della religione di Abramo che era monoteista (hanîf) […]”. Dite: “Noi crediamo in Dio e in ciò che è stato rivelato a noi e in ciò che è stato rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe e alle Tribù, in ciò che è stato dato a Mosè e a Gesù, in ciò che è stato dato ai profeti da parte del loro Signore, noi non facciamo alcuna differenza tra costoro, noi siamo sottomessi a Dio” [oppure: musulmani:  muslimûn] )” » ( 2,135-136).

In tutti i casi in cui compare la traduzione «monoteista» il termine arabo è hanîf. Cosa significa questo termine? Grazie alle ricorrenze coraniche e grazie soprattutto al lavoro esegetico, hanîf si specifica come colui che segue il monoteismo originario, la religione unica, quel monoteismo basico di Abramo che non è ancora stato depauperato dalla pluralità, quel monoteismo non ancora ridotto, e svilito, in monoteismi. Abramo, in quanto hanîf, è il monoteista che non appartiene formalmente a uno dei gruppi confessionale, ma si configura come il prototipo o l’archetipo del credente.

Questo carattere per così dire pre-confessionale o sovra-confessionale di Abramo si trasmette, secondo il Corano, anche alla sua discendenza; come si legge nella sura della Vacca: «Pretendete che Abramo e Ismaele e Isacco e Giacobbe e le dodici tribù fossero ebrei o cristiani? Di’ loro ancora: “Ne sapete più voi di Dio?”» (2,140). 

 È vero che il Corano loda il cristianesimo e l’ebraismo in quanto religioni «del Libro», cioè fondate sulla parola di Dio; ma è anche vero che entrambi sono effettivamente sentiti come delle vie che hanno corrotto la religione di Abramo, l’hanno corrotta perché l’hanno diversificata, cioè hanno manifestato la divisione della religione unica. La sura della Prova Chiara, tra le ultime nella disposizione redazionale finale  e quindi tra le prime in ordine cronologico, è esplicita a questo riguardo: «Quelli che hanno ricevuto il Libro si sono divisi quando è giunta loro la Prova chiara. Eppure, altro non è stato loro ordinato che servire Dio, puri nel Suo culto, da monoteisti (hunafâ’, plurale di hanîf) […]» (98, 4-5).

Anche il Profeta Muhammad è stato chiamato a quello stesso monoteismo, purificato dalla pluralità; ad esempio, secondo la sura di Giona, il Profeta dichiarò: «Mi è stato ordinato: “Volgi il viso alla religione, da monoteista (o hanîf) […]» (10,105)

Ancora più eloquente la sura  chiamata dei Romani, la trentesima:

«Alza il viso alla religione, da monoteista (ancora hanîf), secondo la Natura Prima (fitra) che Dio ha dato agli uomini. Non c’è cambiamento nella creazione di Dio, la religione retta è quella, ma la gran parte degli uomini non sa nulla» (30,30).

Per riprendere le fila del discorso, il Corano identifica la religione di Abramo, cioè la condizione di hanîf (la cosiddetta hanîfiyya), con l’Islam. L’Islam altro non è che il ritorno all’unica religione vera, una restaurazione della religione di Dio, conforme alla Natura Prima dell’uomo, di ogni uomo; ciò vale a dire che l’Islam si offre quale religione dell’intera umanità, nel corso dell’intera storia.

 

Abramo e il pellegrinaggio islamico

 Si è appena parlato di ritorno, di restaurazione, di purificazione dalla pluralità, dalla divisione. Come si è visto fino a qui, l’idea coranica e islamica di Abramo è strettamente connessa a queste idee. Il Libro lo dice anche in un altro modo, per via di un’immagine, quella della ka‘ba, il tempio della Mecca che Abramo, insieme a Ismaele, ricostruì e tolse al culto politeista ripristinando il culto monoteista. Nella seconda sura si legge:

«Ricordate quando facemmo della santa Casa un luogo di riunione per gli uomini e un rifugio sicuro […] e pattuimmo con Abramo e Ismaele: “Purificate la Mia Casa per quelli che vi correranno attorno e vi pregheranno e si inchineranno e si prosterneranno”. Ricordate quando Abramo disse: “Signore mio, rendi questo paese un rifugio sicuro e dona i suoi frutti come cibo alla sua gente, a quelli di loro che credono in Dio e nell’ultimo giorno”. […] Quando Abramo e Ismaele ebbero elevato le fondamenta della Casa, invocarono: “Accettala da noi, Signore nostro, Tu sei colui che ascolta e colui che sa. Signore nostro, rendici sottomessi a Te (muslimûn), fa’ della nostra discendenza una comunità a Te sottomessa (umma muslima) […]. Signore nostro, fa’ che vi sia tra loro un inviato, uno di loro, che reciti loro i Tuoi segni e insegni il Libro e la sapienza e li purifichi, Tu sei il Potente, il Saggio” » (2,125-129).

In tal modo, la figura di Abramo si trova intimamente legata ai riti islamici del pellegrinaggio canonico o hajj, obbligo individuale del musulmano poiché uno dei «cinque pilastri dell’Islam». Abbiamo visto prima che nella storia sacra scandita dal clemente invio dei profeti alle varie comunità, ogni ciclo profetico riecheggia il ciclo islamico, le vicende di Muhammad e dei primi musulmani. Ed è soprattutto a proposito del pellegrinaggio che Abramo appare come una retroproiezione di Muhammad: Abramo ha compiuto nel passato ciò che Muhammad eseguirà nuovamente nell’ultima fase della storia sacra. Abramo pregò Dio di inviare alla Mecca un profeta arabo: «Signore nostro, fa’ che vi sia tra loro un inviato, uno di loro […]» (2,129). E Muhammad fu la risposta alla sua preghiera.

Secondo la dottrina islamica, il pellegrinaggio canonico alla Mecca riproduce le azioni di Abramo. Ma non solo. Il sacrificio dei montoni previsto per il decimo giorno del mese del Pellegrinaggio (dhû al-hijja), quello che i musulmani in tutto il mondo compiono contemporaneamente ai pellegrini, evoca l’immolazione dell’animale che la provvidenza sostituì al figlio di Abramo. E anche il rito della lapidazione del demonio, che lo precede, corrisponde al rifiuto del profeta di cedere alle tentazioni sataniche affinché rinunciasse all’atto sacrificale. Altri riti del cosiddetto «pellegrinaggio minore» o ‘umra, da compiersi al di fuori del mese canonico, corrispondono ad alcuni racconti, non coranici ma assai popolari, sull’arrivo di Ismaele e di Agar alla Mecca e alla loro provvidenziale salvezza grazie allo sgorgare di una fonte, «la fonte di Zamzam». L’importanza di Abramo nel sistema dottrinale dell’Islam non va dunque sottovalutata. Si ricordi che questo profeta figura inoltre nella preghiera rituale o salât, che si chiude precisamente con l’invocazione della benedizione di Dio su Abramo e la sua famiglia.

 

Abramo e la ricerca di Dio

 Concludiamo ricordando brevemente un ultimo punto importante a proposito della figura coranica di Abramo, quello legato alla ricerca personale della fede. In particolare è la sura delle Greggi, la sesta, che lo mostra alla ricerca del Signore. Ecco il passo in questione: «Quando la notte lo avvolse, vide una stella e disse: “Ecco il mio Signore”, ma quando la stella tramontò disse: “Non amo ciò che tramonta”. Quando vide apparire la luna, disse: “Ecco il mio Signore”, ma quando tramontò disse: “Se il mio Signore non mi guiderà, anch’io sarò del popolo degli smarriti”. Quando vide il sole che sorgeva disse: “Ecco il mio Signore. Questo è il più grande”. Ma quando anch’esso tramontò, disse: “Popolo mio, del vostro politeismo io non ho colpa, io volgo il viso verso colui che creò i cieli e la terra, da monoteista (hanîf), io non sono un idolatra” »(6,76-79).

Inutile insistere sulle varie discussioni di scuola a questo proposito, ad esempio: è possibile che Abramo sia stato astrolatra, se i profeti sono esenti dai peccati gravi anche prima dell’investitura profetica? Più interessante adesso per noi è ricordare il senso di questa esperienza abramitica, che è la scoperta o l’intuizione di Dio da parte del credente. Questo percorso graduale è rilevato soprattutto in ambiente mistico, un ambiente culturale che abbiamo trascurato per motivi di tempo. Dalla stella alla luna al sole, all’evidenza del carattere transitorio dei corpi celesti, alla conversione vera: è il modello della tarîqa, la via per livelli successivi intrapresa dagli spirituali. In generale, i mistici leggono nella stella un’immagine dell’intelletto, nella luna un’immagine della fede vissuta, pratica, e nel sole l’illuminazione mistica, tutte tappe da superare l’una dopo l’altra per raggiungere la permanenza e l’annullamento di sé nel Vero ultimo, cioè Dio.                                                                

 ·                                                                                 Ida Zilio-Grandi

 

L’incerta ospitalità e il grande timore di Dio di Abramo

 Tra le tante riprese del figura di Abramo presenti nella tradizione musulmana riportiamo due affascinanti passi  tratti da uno dei capolavori assoluti del pensiero islamico Il ravvivamento delle scienze religiose di al-Ghazali

«Si racconta che uno Zorostriano chiese ospitalità ad Abramo l’amato di Dio. Gli disse questi: “Se ti sottometti (aslamta) al vero  Dio, ti ospito”. Lo Zoroastriano tirò di lungo e Dio eccelso rivelò ad Abramo: “Tu lo avresti nutrito solo a condizione che avesse cambiato fede? Noi da settanta anni  lo abbiamo nutrito malgrado la sua miscredenza. Se gli avessi dato ospitalità per una notte, quale sarebbe stata la tua colpa?”. Abramo si mise allora a correr dietro allo Zoroastriano, lo riportò indietro  e gli dette ospitalità. Gli chiese allora lo Zoroastriano: “come mai hai avuto quest’idea?”, Abramo gli riferì le parole di Dio e lo Zoroastriano gli chiese: “Così Egli mi tratta?” e aggiunse “Esponimi la vera fede”. Quindi si sottomise a Dio» (Scritti scelti di al-Ghazali, a cura di L. Veccia Vaglieri e R. Rubinacci, Utet. Torino 1986, p. 413)

 «Abu ‘l-Darda [compagno di Muhammad] disse che il battito del cuore  l’Amico del Misericordioso, si udiva, allorché egli si levava per la preghiera, alla distanza di un miglio tanto temeva il suo Signore» (Ivi, p. 481)