APPROFONDIMENTI CULTURALI  -XLVII                                                                             (ANNO XXIII. N. 1)

 

La nuova traduzione CEI della Bibbia

Ringraziamo Luca Mazzinghi per questo informato e utilissimo  intervento pronunciato nell’ambito dell’ultimo corso di ebraico biblico. Siamo rammaricati che lo spazio a nostra disposizione ci abbia  costretti ad apportarvi  qualche taglio.

      L’argomento che mi è stato chiesto di affrontare, può essere da me trattato per esperienza diretta, perché, nel 1995, sono stato nominato dalla CEI come esperto per la traduzione dell’Antico Testamento, traduzione a cui ho lavorato per cinque anni, cioè fino al 2000. Dico subito che sono stati fatti due lavori molto distinti per Antico e Nuovo, quindi, facendo io parte della commissione incaricata di tradurre l’Antico, sono molto informato su quest’ultimo, mentre ho minori conoscenze su quanto è stato fatto per il Nuovo.

    Non entrerò in argomenti di carattere divulgativo, cioè in quelli di cui si discute con maggiore frequenza sui giornali, come, per esempio, la traduzione del Padre Nostro, o i testi ai quali sono state apportate le modifiche più clamorose. Di questo si parla diffusamente su Internet ed anch’io mi sono divertito a consultare vari siti, dove ho trovato di tutto. Se voi digitate «revisione Bibbia CEI 2008», vi vengono segnalati diversi siti di ogni genere: quelli degli ultratradizionalisti cattolici, molto inviperiti, perché sono stati apportati dei cambiamenti a quello che a loro piaceva tanto;  ci sono poi siti, per usare un termine politico, “di sinistra”, che accusano i traduttori di poco coraggio nelle scelte innovative; altri siti, invece - che fanno capo a varie Chiese riformate ed un po’ più marginali - colgono l’occasione per sferrare nuovi attacchi; infine esistono siti iper-cattolici, in cui si difende la traduzione a spada tratta. Insomma c’è di tutto. Tuttavia, se si entra in questo tipo di polemiche, risulta perfettamente inutile continuare a parlare, perché ciascuno mantiene la propria idea ed il discorso finisce subito.

   Un’osservazione preliminare può essere quella che, all’interno della Chiesa Cattolica, di questa revisione, in realtà, si è parlato pochissimo, quindi il prete medio non ne sa praticamente nulla. Fate una prova: se andate dal vostro parroco e gli chiedete se conosce questa revisione ed i principali cambiamenti apportati rispetto alla precedente, vi accorgerete che la maggior parte dei preti italiani non ne sa niente. Per non parlare del cattolico medio, che si è accorto a stento che è da più di un anno che la usiamo, cioè dall’Avvento del 2007. Insomma, qualcuno se n’è accorto, qualcun altro non si è neanche reso conto che c’era una nuova traduzione in corso e che essa è stata pubblicata. Questo fatto è, di per se stesso, molto indicativo. Comunque, per quanto riguarda il mio intervento, vorrei fare un discorso serio, cioè non viziato da sterili polemiche o apologie, che non interessano e non portano da nessuna parte.

   Per entrare in argomento, occorre ricordare prima di tutto che ogni traduzione è di per sé limitata: la traduzione perfetta non esiste e non esisterà mai, né in italiano né in nessun’altra lingua. D’altra parte bisogna pur tradurre […]   Inoltre questa non è una nuova traduzione, bensì la revisione di una già esistente: ciò significa che essa si porta dietro i pregi e i difetti della traduzione precedente, i quali non possono essere del tutto eliminati.

La domanda a questo punto è la seguente: perché i vescovi italiani non hanno fatto una nuova traduzione? A questa domanda si può rispondere in un unico modo: così è stato deciso dall’ufficio dei vescovi della CEI. Inoltre va detto che la nuova CEI ha dovuto fare i conti con una traduzione precedente condotta sulla base di un criterio molto più letterale di tante altre […]  La revisione è stata decisa molto presto: già nel 1988 la Conferenza Episcopale Italiana si rese conto che la traduzione CEI del 1974 presentava diverse inadeguatezze: traduzione spesso affrettata, a volte anche ostica nel linguaggio, con diversi errori palesi, dovuti alla fretta per recuperare il ritardo accumulato dalla traduzione italiana rispetto a quelle fatte in altri paesi. L’iter della revisione è stato davvero molto lungo: per il Nuovo Testamento il lavoro era già in stato avanzato nel 1997, quando i traduttori hanno più o meno finito; per l’Antico Testamento, si è iniziato più tardi, cioè nel 1995, e terminato nel 2001. Questo significa che, dal 2001 al 2008, la traduzione è rimasta ferma in Vaticano, nei palazzi della Congregazione per la Liturgia; infatti, con un documento del 2001 dal titolo Liturgiam Authenticam, il Vaticano ha avocato a sé anche le traduzioni in lingua volgare che prima erano destinate alle singole conferenze episcopali. Tale recognitio, come si dice in termini tecnici, è durata sette anni ed è stata estremamente complessa.

    Per l’Antico Testamento c’era un’equipe di venti persone, divise in quattro sottogruppi (Torà, Profeti, Salmi, Scritti) di cui ciascuno costituito da un vescovo, 2 linguisti e 2 biblisti. È stato un lavoro molto serio ed assolutamente libero, tanto libero da consentire un vivace confronto di opinioni e da stroncare ogni illazione o polemica su un’eventuale “ traduzione pilotata”. Nel volume I della Editio Maior della nuova CEI, c’è l’elenco dettagliato di tutti i traduttori e dei collaboratori.

    Quali sono i criteri seguiti in questa revisione? Essi sono stati richiesti dalla CEI e comparivano scritti su un foglio affisso nella bacheca dell’aula in cui si lavorava, per ricordare ai traduttori quali erano i principi in base ai quali dovevano operare.

    Il primo criterio è la fedeltà ai testi originali, usando le migliori edizioni critiche oggi disponibili, stando ai principi classici dell’esegesi e della critica testuale e correzione su questa base degli eventuali errori della vecchia traduzione CEI. Rientra qui anche il tema della ricerca di una certa omogeneità di lessico, ovvero si è cercato di tradurre nello stesso modo la stessa parola ebraica presente negli stessi contesti, mentre la vecchia CEI non faceva così e si muoveva secondo un criterio che, nel linguaggio informatico, si definirebbe random. Un esempio è quello di chèsed,  un termine difficile da tradurre, a meno che non ci si serva di un’espressione come «amore benevolente» oppure «amore fedele»; però non si può tradurre una parola con due, perché ne risulterebbe una traduzione illeggibile. […] La vecchia CEI traduceva invece chèsed con: «amore», «misericordia», «grazia», «fedeltà», «benevolenza», cioè senza un criterio uniforme applicato a tutte le 287 ricorrenze di questo termine nel testo. Si è quindi cercato di uniformare scegliendo come campo semantico quello di «amore» e «fedeltà», che, a livello linguistico, sembravano i due vocaboli più centrati su chèsed. Questo è avvenuto riservando il significato di «misericordia» a rachamìm: ad esempio, il salmo 51, nella nuova revisione è diventato «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore, nella tua misericordia cancella la mia iniquità», dove «amore» traduce chèsed, mentre «misericordia» traduce rachamìm.

   Il secondo criterio è stato, dove possibile, di avere una cura estetica della traduzione, particolare che prima non era stato molto curato, poiché si trovavano cacofonie e parole desuete. Ad esempio, nei salmi, si trovano espressioni come «scherno e ludibrio», «ludibrio ed obbrobrio», che presentano difficoltà già nella sola pronuncia. […] Si tratta comunque di un problema difficile da risolvere, perché, se si vuole ricercare l’eufonia, si finisce talora per sacrificare la traduzione; all’opposto, se si cerca la “traduzione perfetta”, si finisce per sacrificare l’agilità del testo.

    Questo ci conduce al terzo criterio, secondo cui, dato che la Bibbia viene usata nella liturgia, essa deve risultare del tutto leggibile, perché altrimenti il testo diventa incomprensibile a livello liturgico. Inoltre tale traduzione deve essere cantabile e non si può pensare di offrire un salterio che poi non possa essere cantato. Per la Chiesa Cattolica è un dato di fatto che il luogo privilegiato della lettura biblica è la liturgia […] I problemi della vecchia CEI sono nati proprio dall’uso liturgico e dal fatto che, tante volte, il lettore incespica e non riesce a seguire il filo della lettura. Sempre a proposito di questo terzo criterio quello che manca in Italia, e che invece è presente in altri paesi, è l’abitudine al linguaggio biblico. […] È pur vero che alcune cose sono ormai entrate nell’uso, per cui i vescovi, a torto o a ragione, non si sono sentiti di modificarle.

Un esempio classico è l’espressione «il Verbo si è fatto carne»: in italiano «il verbo» non si dice, perché è un latinismo, però i vescovi hanno ritenuto che questo termine fosse ormai entrato nell’uso e non lo hanno cambiato con «la Parola». Altri due esempi di termini ostici rimasti inalterati sono lo «Spirito Paraclito», che è una traslitterazione dal greco, e l’espressione «il Signore degli eserciti» (Adonai zevaòt) che propriamente dovrebbe essere tradotto con «schiere». A proposito di questa espressione si è discusso parecchio e, se proprio non si poteva usare la parola «schiere», si è suggerito di fare almeno come i Settanta, in cui compare Theòs pantocràtor «Dio onnipotente», come del resto si dice nel Sanctus liturgico. Tuttavia alcune espressioni come queste appena citate non sono state toccate, perché i vescovi hanno ritenuto che fossero ormai entrate nell’uso.

   Il quarto ed ultimo criterio è risultato il più difficile da applicare ed ha messo in crisi le commissioni dei traduttori. Nel 1989 è stata pubblicata, per volontà di Giovanni Paolo II (anche se in realtà il lavoro era già iniziato con Paolo VI) la Nova Vulgata, ovvero l’edizione tipica della Bibbia latina per uso liturgico, che è la Vulgata di Girolamo, riveduta e corretta dai benedettini di Boyron. Questa Bibbia è diventata tipica per l’uso liturgico, vale a dire deve rappresentare il testo di riferimento per la liturgia. L’Istruzione Vaticana del 2001, a lavoro ormai quasi finito, ha chiesto di usare questo criterio anche per le traduzioni in lingua volgare: si tratta di un documento altamente contraddittorio, perché, da una parte, chiede una traduzione dai testi originali e la fedeltà alla critica testuale, dall’altro, esige come punto di riferimento la Nova Vulgata e chiaramente i due concetti sono in contrasto. I traduttori si sono venuti quindi a trovare tra Scilla e Cariddi, tra l’incudine ed il martello, ma sono riusciti a trovare una via media, ovvero ad usare la Nova Vulgata, quando, a loro parere, era supportata da un buon lavoro di critica del testo, e a non usarla quando non lo era. Insomma, questo criterio è stato seguito iuxta modum; infatti, se si fosse usata la Nova Vulgata come unico punto di riferimento, tanto valeva tradurre direttamente dal latino.

    Proprio quest’ultimo criterio ha condotto ad un paio di scelte molto importanti: nel primo caso si è trattato di una scelta innovativa, nell’altro non del tutto. Si tratta dei casi di Ben Sira e di Esther.

    Ben Sira (Siracide) è conosciuto in varie forme testuali; fondamentalmente tutte le traduzioni moderne partono dal greco, perché l’ebraico è frammentario, in quanto ne abbiamo un migliaio di versetti su 1600 e quindi è impossibile fare una traduzione dall’ebraico di Ben Sira, perché qualcosa mancherebbe sempre e comunque anche l’ebraico è in due forme testuali. Anche il greco è in due forme testuali, una breve ed una lunga, poi c’è il siriano, poi c’è la Vetus latina, che sono ulteriori forme testuali. La Nova Vulgata segue un criterio che, con un po’ di bontà, si può definire “eclettico”, mentre i traduttori hanno seguito il criterio della liturgia. Nella Chiesa cattolica, come del resto in quella ortodossa, il libro è inserito nella Bibbia, ma non è mai stata decisa la sua canonicità o meno. Nella Chiesa cattolica è sempre stato usato, però, il testo lungo, per cui la scelta della nuova CEI, diversa da quella delle Bibbie ordinarie, è stata di inserire il testo lungo, con due criteri ulteriori: indicando in corsivo tutte le aggiunte del greco lungo ( per cui quando si apre la Bibbia si vede ad occhio che è un testo diverso) ed indicando in nota tutte le principali varianti col testo ebraico, quando c’è, e con la Nova Vulgata. In questo modo, tutto quello che finisce in nota diventa un punto di riscontro. Questa è una scelta abbastanza nuova che non è usuale per le Bibbie moderne, perché di solito si traduce il greco corto, o, come la vecchia CEI, si fa un po’ di mescolanza senza troppo criterio.

    La scelta di Esther è meno nuova, ma altrettanto radicale. Girolamo, nella Vulgata, traduce il testo ebraico, in nome della hebraica veritas; però questo libro esiste in diversa forma anche in greco, ed è molto diverso da quello ebraico, tanto che oggi ci si orienta a ritenere la versione greca molto più antica di quella ebraica, mentre prima si riteneva il contrario. Girolamo traduce le sei ampie sezioni del greco, che mancano in ebraico, e le mette in appendice alla traduzione dell’ebraico. Questa è la Vulgata Tridentina che già aveva due Esther. Invece la Bibbia CEI attuale fa un melange: mette un testo a zeppa dentro l’altro e, alla fine, non si capisce più qual è l’uno e qual è l’altro. I traduttori della nuova CEI hanno preferito seguire la scelta della Bibbia interconfessionale, ossia quella di tradurre il testo due volte, cioè il greco e l’ebraico, mettendo il greco sopra (perché nella liturgia della Chiesa cattolica si è sempre usato il greco) e l’ebraico sotto, benché Gerolamo traducesse il testo ebraico. Quindi nella nuova CEI si trova la pagina divisa in due, con il greco sopra e l’ebraico sotto.[…] Questo, fra l’altro, comporterà una riflessione sul problema del Canone, perché ci si ritrova ad avere due Esther; tale problema c’era anche prima, ma di esso forse ci si accorgeva di meno. Queste sono state scelte ambedue molto dibattute, e c’è voluto un biglietto sapientissimo del cardinale Martini, che in Italia è il più esperto in assoluto di critica del testo biblico, per uscire da questa situazione.

    Si può fare, a questo punto, qualche rapido esempio di correzioni di scelte testuali della vecchia CEI. Si possono fare due esempi dai salmi, di cui mi sono occupato di persona.

Il salmo 65 nella vecchia CEI aveva: «a te si deve lode o Dio, in Sion», che però è il testo greco, ed è la traduzione liturgica latina usata fino ad ora ( tibi decet laus Deo in Sion); il testo ebraico, invece, contiene una parola, cioè dumìa, che indica il silenzio […] La traduzione forse migliore è «per te (lekhà) silenzio e lode, o Dio in Sion», ed è la nuova CEI che, con buona pace dei tradizionalisti, è anche la traduzione di Girolamo, il quale, nella Iuxta Hebraicam, traduceva tibi silens laus, Deus in Sion. Questo significa che Girolamo aveva colto in dumìa il valore di «silenzio» e non quello del verbo che significa «addicersi».

     Un altro esempio di scelta migliore è il salmo 74 al versetto 19, che aveva nella vecchia CEI «non abbandonare alle fiere la vita di chi ti loda», dove già l’uso del vocabolo «fiere» è brutto, perché si presta ad ambiguità nella resa in italiano. Questo è il testo greco che legge todèkha «chi ti loda», mentre il testo ebraico ha torèkha «tua tortora», con la conseguenza che si può quindi tradurre: « non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortora», ed è questa la traduzione della nuova CEI, che intende come «tortora» il fedele che sta pregando. Questo è un esempio del recupero del testo ebraico e nei salmi ci sono diversi casi di questo genere.

   Un terzo esempio è il salmo 8, che è stato molto discusso. Nella vecchia CEI si leggeva: «Signore nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra», mentre il testo ebraico dice Adonai Adonenu, ma addìr. Prima di tutto Adonai Adonenu non significa «Signore nostro Dio», ma «Signore, Signore nostro» e poi addìr è un vocabolo che deriva dall’ugaritico e significa «terribile», «mirabile», quindi bisogna tradurre «quanto è mirabile», non «quanto è grande» che semmai è ma gadòl. Per cui la traduzione della nuova CEI è : “«Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la Terra», che rappresenta senz’altro un miglioramento.

    Sempre per questo salmo 8, al versetto 5, la vecchia CEI aveva: «l’hai fatto poco meno degli angeli», che è il testo dei Settanta; invece il testo ebraico ha Elohìm. Qui, come si vede, il problema è notevole, perché bisogna capire se con questo termine si intende Dio («l’hai fatto poco meno di Dio»), oppure gli Esseri Divini, cioè quelli della corte celeste di cui parla Giobbe, chiamati anch’essi Elohìm. Quindi la traduzione, in questo caso, diventa anche un problema di esegesi: il termine «angeli» di sicuro non andava bene, perché si tratta di un’interpretazione del testo che traduce un vocabolo che in ebraico esiste, ma qui non c’è, ossia malàkh. Girolamo, invece, nella Iuxta Hebraicam, aveva paulo minus a deo «poco meno di un dio». Inizialmente si era proposto di correggere in: «l’hai fatto poco meno di Dio», ma nella nuova versione riveduta è stato messo «l’hai fatto poco meno di un dio», con la “d” minuscola. Questa è una soluzione abbastanza di confine, perché “ poco meno di un dio” non specifica di quale dio si tratti; anche se si trattasse di esseri celesti, non è neppure chiaro di quali esseri celesti si tratta; infine, se fossero stati gli angeli, tanto valeva lasciare gli angeli. Questo è dunque uno dei casi in cui non si è chiarito tutto ed il problema esegetico rimane.  […]

     Il Nuovo Testamento ha creato un altro tipo di problemi rispetto all’Antico: pochi problemi testuali, perché essi sono tutti beni noti e di soluzione abbastanza semplice. Nella nuova CEI sono state invece affrontate, come al solito, le inesattezze della traduzione, le incongruenze ed i passi paralleli dei Sinottici. I traduttori precedenti, per qualche motivo che a noi sfugge, si erano dimenticati che esistono i Sinottici, per cui, se lo stesso brano esiste ugualmente in tutti e tre, non può di certo essere tradotto in tre modi diversi, soprattutto se gli originali usano le stesse parole;  mentre nella vecchia CEI la stessa frase era stata tradotta in maniera diversa […].

        Non tutte le difficoltà sono ancora del tutto risolte. Per es. nel NT compare cinque volte il termine greco epìscopos: una volta a proposito di Gesù, quattro volte in Atti, Filippesi, I Timoteo a proposito di un ministero ecclesiale. In realtà la parola greca, se si vuole tradurre in maniera letterale, indica «sorvegliante», «ispettore», «sovrintendente»; tuttavia, nel NT, essa indica senz’altro un ministero ecclesiale di responsabilità,comunque si concepisca la funzione di vescovo nelle varianti confessionali. La tradizione cristiana antica, la chiesa cattolica, ortodossa e  anglicana continuano ad usare il termine in senso tecnico, e la parola epìscopos si riferisce a un ministero, quello episcopale appunto, di carattere sacramentale. D’altra parte è anche vero che, nelle comunità paoline, gli epìscopoi non erano di fatto quelli che conosciamo noi, cioè non ricoprivano quel ministero ordinato come ultimo grado di quello sacerdotale; così accadeva nella comunità di Filippi, come sappiamo per certo a livello storico. Tuttavia se, in questo caso, si traduce con il termine «ispettori», si ha una traduzione orrida, perché si rischia di pensare a Timoteo come ad una sorta di «ispettore fiscale»; peggio ancora è usare «sovrintendente» o «sorvegliante», come fanno i testimoni di Geova, con una traduzione ovviamente polemica nei confronti di tutte le altre chiese cristiane. La Nuova Riveduta, che pure è espressione di un contesto riformato, rende il termine con «vescovi», traduzione talmente legittima che la usano anche coloro che non hanno i vescovi. Ciò non toglie che tale traduzione sia anacronistica e questo dimostra che il problema non è affatto di facile soluzione. Però in qualche modo bisogna pur tradurre, preferibilmente in un modo che richiami un ministero, ed alla fine si è scelto di chiamarli «vescovi», perché almeno si conosce ciò di cui si parla; poi, in sede di esegesi, si spiegherà che essi non erano proprio uguali al nostro vescovo, inteso come quella figura ministeriale con mitria e pastorale. Lutero usa bishop, come del resto anche la King James, quindi le grandi traduzioni, anche riformate, si avvalgono dello stesso termine, perciò si è scelto di non essere precisissimi, ma di rimanere in linea con una tradizione cristiana diffusa in tutte le Chiese. Tuttavia la nuova CEI, in Atti 20, 28,  traduce con «custodi»; fatto singolare, perché, quando Paolo parla agli anziani di Efeso, dice : “ Il Signore vi ha posto come episcopoi sul gregge”, forse per far capire che non si tratta proprio dei vescovi come li intendiamo noi.

   Un altro esempio è Giovanni 1,38, quando Gesù si volta e vede i discepoli che lo seguono e gli chiedono «pou mèneis?», che la vecchia CEI traduce in modo banale: «dove abiti?». Invece Giovanni è molto attento alla scelta dei verbi ed anche menō è un verbo teologico, che è sempre usato in tal senso per indicare il «dimorare» di Gesù nel Padre, il «dimorare» dello Spirito nei discepoli. Dunque nella nuova CEI si è scelto di tradurlo con «dove dimori?», cioè con un linguaggio elevato, ma che fa pensare che non si tratti del banale «dove abiti?». Infatti qui Giovanni allude alla vera dimora di Gesù , che è il problema di tutto il suo vangelo; questo è il risultato di uno studio profondo attuato da una serie di studiosi giovannei, in particolare da Carlo Ghidelli, che fornisce una decina di testi esegetici a sostegno di questa traduzione. In italiano il «dimorare» è senz’altro meno ovvio dell’«abitare», ma, proprio per questo, tale verbo è stato scelto, cioè perché non si tratta di semplice abitare. I discepoli non se ne rendono conto, ma stanno ponendo la domanda fondamentale a Gesù; essi ancora non sanno la risposta, ma la sa Giovanni e comincia a capirla il lettore. In questa prospettiva, va collocato anche il recupero del termine odòs dal testo degli Atti (9,2; 16,17; 18, 25-26 ecc.), che va tradotto come «via», mentre nella vecchia CEI era tradotto come «dottrina». Infatti sappiamo che, negli Atti, la fede cristiana è chiamata «la via» ed i suoi adepti sono chiamati «i seguaci della via» In tal senso, il tradurre con «dottrina» può ricordare più un catechismo come quello di Pio X, ma implica uno slittamento del testo verso una visione concettualistica del cristianesimo. In Atti 22,4, quando Paolo si difende davanti al popolo di Gerusalemme che lo vuole uccidere, dice: «Io perseguitai a morte questa Via», ed il termine è messo nella nuova CEI con la V maiuscola per aiutare il lettore a capire che non si tratta di una via qualsiasi, ma del percorso della fede cristiana.

    Per finire, un ultimo criterio che è stato tenuto presente nella traduzione del NT è quello della “leggibilità”, che ha messo a dura prova i traduttori anche dell’AT, in quanto si è sempre costretti a sacrificare qualcosa, cioè, alternativamente, o la fedeltà al testo o lo stile. Un esempio di un problema di traduzione che non si è riusciti a risolvere è quello del salmo 23: «il tuo bastone ed il tuo vincastro». Questo secondo termine è tecnicamente corretto, perché esso indica il bastone pastorale arricciolato, con cui si prendono le pecore per il collo e si portano indietro, il quale ha una foggia simile a quello dei vescovi; invece il bastone vero e proprio ha la punta, serve per spingere, mentre il vincastro serve per trattenere. Si tratta quindi di due immagini complementari. Se al posto del termine desueto «vincastro» si mette «pastorale», si aggrava la situazione, perché si pensa al vescovo; qualcuno aveva anche proposto «il tuo bastone e la tua guida», però il primo è un termine concreto ed il secondo un termine astratto. Alla fine è rimasto il vincastro e non si è riusciti a trovare una parola migliore per distinguerlo dal bastone.

    Altro esempio di problema non risolto è il salmo 56 versetto 9: «il tuo otre raccoglie le mie lacrime», che presenta una brutta cacofonia di «tuo» ed «otre», ma anche una difficile comprensione della metafora. Qualcuno sostituisce «otre» con «vaso», «recipiente», però tutte queste soluzioni non hanno convinto ed è rimasto otre. Invece un esempio di maggiore leggibilità è quello della parabola del ricco epulone, “«che vestiva di porpora e di bisso». Si è deliberato che oggi la parola «bisso» è molto difficile da capire e, siccome si tratta di una tela di lino finissima, usata per i nobili, si è scelto di tradurre con «lino finissimo». Ed ancora: «il povero fu portato nel seno di Abramo», espressione tecnicamente corretta e che ha dato luogo ad un’accanita discussione, perché qualcuno voleva lasciare il semitismo «seno» (kòlpos); alla fine è diventato «accanto ad Abramo», per favorire la comprensione del sintagma di impronta semitica. Nella parabola c’è anche un altro esempio: «né di costì possono attraversare fino a noi», che nella nuova CEI è diventato: «né di lì possono giungere fino a noi», che è un po’ più sciolto e lineare.

    Questi sono alcuni esempi e lo scopo non è quello di difendere o di non difendere la nuova traduzione; la prova dei fatti sarà l’uso della Bibbia, perché, fino a quando non viene usata davvero, è difficile capirne la validità. Bisogna tenere presente che questa non è una traduzione fatta per puristi, filologi o cultori delle lingue semitiche, ma si tratta di una traduzione per uso liturgico, quindi non può essere giudicata col criterio della fedeltà letterale a quel preciso termine ed alle sue varie sfumature in ebraico, perché è oggettivamente impossibile. I destinatari compongono un pubblico molto vasto, dai principianti agli studenti di teologia, quindi è una traduzione che deve accontentare diversa gente; del resto essa è stata fatta per un uso parlato, ed il suo intento non è quello di sostituire altre traduzioni già in uso come quella interconfessionale. Personalmente è la traduzione interconfessionale quella che adotto in parrocchia sia con i bambini che con gli anziani; per il resto si può ricorrere alla  Bibbia CEI, per il semplice fatto che è quella che si usa nella liturgia, altrimenti la gente ne risulta disorientata.

 Luca Mazzinghi (Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, Firenze).