APPROFONDIMENTI CULTURALI  - XLIV                             --------                                (ANNO XXII, N. 1)

 

 

Premessa

 

Nel corso del 2007 ci hanno lasciato alcuni illustri maestri. Erano persone diverse, per competenze, età, ruoli. Anche i loro rapporti con Biblia sono stati di intensità differenziate.Dapprima abbiamo dovuto  apprendere della scomparsa di Giuseppe Barbaglio; a maggio è morto il teologo Giuseppe Sartori; a settembre a sessantasei anni se ne è andato Pietro Lombardini; a novembre si è congedato da noi uno dei grandi patriarchi della ricerca biblica, il novantacinquenne  Xavier Leon-Dufour.

Anche se negli ultimi anni la salute l’aveva costretto a non essere più presente tra noi, si può ben affermare che tra i quattro studiosi ora ricordati sia stato proprio don Pietro ad avere con Biblia il rapporto più intenso. Constatazione che,  ovviamente, non sminuisce neppure di uno iota il prezioso apporto degli altri tre nostri amici. Questa valutazione è dovuta al fatto che siamo ben consci non solo di quanto don Pietro ha dato a Biblia, ma anche di quanto da essa ha ricevuto. Persona di grande e multiforme dottrina, Lombardini non ha, consapevolmente, voluto calcare celebrati palcoscenici o produrre opere monumentali. La sua era una ricerca aperta, umile, instancabile, coraggiosa. A Biblia aveva trovato un ambiente che gli era consentaneo. Gli siamo riconoscenti sia per il tanto che ci ha dato, sia  per quello che da noi ha accolto.

Grazie alla perizia di Anna Celano, maestra in sbobinature (ed evangelista di Biblia, secondo la ben nota definizione di Paolo De Benedetti) possiamo offrire ai nostri lettori il contributo inedito pronunciato da don Pietro durante il corso di aggiornamento La Bibbia le pietre la città, Firenze  20-22 novembre 1997. La relazione, pur in questa forma provvisoria, rispecchia bene gli interessi, la sensibilità e la preparazione di Lombardini.

Per approfondire il suo ricordo vi consigliamo di leggere, oltre al n. 127 della rivista Qol, il bell’articolo a firma di Filippo Manini apparso su Il Regno-attualità n. 18, 2007, pp.647s.

 


 

 la casa di dio

 

È a partire dall’orientamento proprio della mistica ebraica che si mostra, in modo molto profondo, la connessione che tiene unita Bibbia pietre e città. Ovviamente sono ben consapevole che sul piano storico-esegetico l’accostamento a testi biblici per la via battuta dalla mistica ebraica è quanto meno problematico; e tuttavia, credo che si crei una tensione feconda. D’altra parte come entrare nel testo delle Scritture ebraiche escludendo la mediazione del commento ebraico?

La lettura del testo biblico, oltre all’indispensabile strada storico-critica,  deve percorrere la via della trasformazione della storia  che ha preso le mosse a partire ‘dal libro’; passando così, da quella prima storia che ha visto la produzione del libro, alla storia dedotta dal libro. Secondo questo orientamento tra Bibbia, pietre, città e la casa di Dio che ne è il centro c’è una relazione molto intima, essenziale quasi di identità. Tra il Sefer Yetzirà (Il libro della formazione) - in cui le lettere dell’alfabeto sono chiamate pietre e le parole sono chiamate case - e la Genesi che narra la creazione-formazione del mondo, dell’uomo, di Israele, attraverso la parola esiste un nesso creato, tramandato e attualizzato dall’incessante fluire del commento ebraico animato dalle nozioni di libertà, di dinamismo, di rinnovamento del tempo e della storia. Questo nesso consiste soprattutto nel fatto che nel dispiegarsi della lingua ebraica si distendono e la geografia (la scrittura della terra) e la geometria (la misura della terra); nel distendersi della scrittura che proviene dall’atto vivente di un corpo personale e comunitario, si distende simultaneamente lo spazio dell’uomo in rapporto al tempo e alla libertà.

Mi avvicinerò pertanto a questi due testi biblici di riferimento (che do per conosciuti), l’uno riguardante Giacobbe che giunge e pernotta in una casa di Dio (Gen 28,10-22) e l’altro testo riguardante David cui Dio promette una casa (2 Sam 7), non per farne l’esegesi, ma come parte di un discorso a dominante simbolica, nel senso che la strutturazione dello spazio e del tempo umani da esso prodotti significa la presenza del tempo dell’origine. Entriamo cioè nell’ambito di quello che chiamerei ‘mito’, vale a dire il racconto dell’origine. Esso differisce dal racconto dell’inizio se si intende con inizio il punto di partenza da cui la corrente del tempo non cessa di allontanarsi e che diventa sempre più irrimediabilmente passato. L’origine invece rimane sempre presente lungo il corso del tempo con la sua forza di rigenerazione. Nella tradizione ebraica, infatti, questi testi sono considerati, anche se a titolo diverso, fondanti l’esperienza spazio-temporale e quindi in qualche modo sempre  parte dell’oggi di Israele. Vorrei quindi mostrare, anche se solo per cenni, come il tema della casa di Dio, quale si evidenzia nelle scritture ebraiche, faccia emergere il volto di una città di Dio profondamente inculturato nella civiltà del Vicino Oriente antico, in uno stretto rapporto di accettazione e di scontro, come sempre avviene nei dialoghi interculturali.

Per partire vorrei semplicemente enunciare alcuni dati di fatto, che andrebbero elaborati molto più in profondità di quanto posso fare ora.

A - Un primo dato appare oggi evidente: la Bibbia è nata in diaspora. Penso soprattutto all’esilio babilonese dopo la distruzione del primo tempio,  dove per la prima volta, nella storia del Vicino Oriente, il Dio dei vinti non sarà un Dio vinto. L’appartenenza al vasto insieme semitico ha dovuto facilitare la relativa integrazione degli esuli nel nuovo contesto culturale mesopotamico. Nella catastrofe seguita alla distruzione di Gerusalemme, che non poteva non avere conseguenze per la fede, gli esiliati fecero fronte alla sfida. La Torà mosaica che essi riportarono in Giudea alla fine dell’esilio, non era più quella che avevano portato nei loro bagagli e nei loro cuori all’alba dell’esilio. Ora essa rifletteva l’irraggiamento culturale babilonese sul popolo giudaico deportato. La Bibbia è nata in esilio: in un certo senso è nata in Mesopotamia, a Babele.

 B – Un secondo dato si è fatto strada molto più lentamente nella nostra cultura occidentale (tutta centrata su Atene, sulla sua polis, sul suo logos): la convinzione che quella che noi chiamiamo ‘città’, ovvero la cultura urbana, è nata proprio dove gli esiliati giudei scrivevano la loro Torà. Non solo: la nascita della città e della scrittura coincidono. L’evidenza archeologica a Nippur a Uruk, a Susa ecc., mostra che la rivoluzione urbana, nel IV millennio a.e.v. provocò la nascita, a Sumer, della scrittura con la creazione di documenti, missive, contabili o inventari e liste. La tavoletta è nata dal bisogno di trasmettere l’informazione ma anche di custodire la memoria, attraverso segni pittografici prima, astratti poi. L’evoluzione verso segni che esprimono la parola stessa è veloce in quanto, per utilizzarli, li si doveva certamente leggere ad alta voce, quale che fosse la loro ripartizione grafica. Si passò così alla scrittura fonetica e non più soltanto ideografica. Questo dato è entrato più lentamente nella cultura occidentale, e ne fa testo Marcel Detienne La scrittura e i suoi nuovi oggetti intellettuali in Grecia ( in G. Cambiano, L. Canfora e altri, Sapere e scrittura in Grecia, Laterza Roma-Bari 1989, pp. V-XXI). Nella sua introduzione Detienne riconosce chiaramente la priorità del Vicino Oriente, pur enfatizzando il contrasto fra il logos, il gramma greco e le scritture orientali. Dice ad es.:

«I contrasti hanno virtù inaugurali. In fatto di scrittura, non meno che altrove, la Grecia si scopre a volo d’uccello, i suoi crinali messi a nudo se per un attimo si scontrano due paradigmi dalla sicura traiettoria. La città che scrive le sue leggi, [questa sarebbe Atene] un Dio che rivela la sua scrittura [questo sarebbe il Vicino Oriente]».

E a proposito di Israele:

«Più presente delle vecchie divinità di Sumer che si consultano ogni anno per redigere le tavolette dei destini, il Dio di Israele si impone all’origine del libro. Dio scriba, Egli consegna a Mosè le due tavole della testimonianza, tavole di pietra scritte di suo pugno. Adonai in posizione di scrittore, sceglie la lettera contro l’immagine e intorno a lui, amministratore di un piccolo reame, un contingente di scribi si prepara al cerimoniale della scrittura».

Più avanti nello stesso saggio e proprio in riferimento a Sumer, l’autore individua la nascita della città nel sorgere contemporaneo di sovranità, sistema palaziale, archivi scritturistici. Questo è il secondo dato cui dobbiamo prestare attenzione.

C. Un ultimo dato va sottolineato. L’invenzione della città e della scrittura non abolisce nel Vicino Oriente la cultura seminomadica caratterizzata dalla oralità. Giacobbe (di cui ci parla Gen 28) che si muove ai margini della città e David che si insedia nel palazzo cittadino possono coesistere ed essere contemporanei. In un certo senso,  possono essere presi come emblemi di una cultura duale,  al cui interno si aprono spazi per tensioni anche pericolose, ma certo feconde. David che riceve la parola profetica - «Te poi il Signore farà grande poiché una casa farà a te il Signore» (2Sam 7,11) - introduce tardivamente, rispetto al resto del Vicino Oriente, nel sistema inaugurato dalla cultura urbana, un ambito spaziale e simbolico ove, oltre alla stratificazione socio-economica, prende forma una figura piramidale dal cui vertice il re (rappresentante del Dio) presiede alle tre organizzazioni/funzioni che reggono la vita cittadina: la burocrazia amministrativa, l’esercito, il clero. Si crea così un rapporto triangolare tra divinità, re, comunità; ed è alla casa del Dio che, anche visivamente, è appoggiata quella del re.

Quanto interessa sottolineare è che l’origine della scrittura viene legata al monumento, si tratti delle ziqqurat babilonesi o dei grandi templi egizi e che questa origine testimonia l’ineguaglianza, scritta e incisa sulla pietra, di un uomo rispetto agli altri uomini.

Diverso il caso delle pietre che Giacobbe riunisce a Betel e pone «sotto il suo capo» (Gen 28,10) (o forse si potrebbe tradurre «a protezione dalla parte del capo») e la pietra che in quell’aurora del risveglio dopo la visione notturna, Giacobbe unge ed erige in mazzevà, in stele. Queste pietre  rappresentano certo uno stadio precedente la monarchia, durante il quale le tribù, che diventeranno Israele, vivono nello spazio/tempo della cultura seminomadica organizzato in modo diverso da quello cittadino. La stele è non una piramide, ma il memoriale del Dio di Abraham, «tuo padre», del Dio di Jizchaq (Gen 28,13). Diverso anche perché il rapporto Dio-popolo-terra (cfr. Gen 28, 13-15) è fissato non ad un luogo ma a un movimento: «Io sarò con te e ti proteggerò dovunque andrai» (Gen 28,15). In primo piano sono le toledot, le generazioni di cui la stele è memoriale. La terra rimane una terra ‘promessa’; sono le generazioni a scandire il tempo, non scritto, della storia. Si viene così a creare una tensione, in Israele certo, ma anche entro un orizzonte universale, tra oralità e scrittura, ove la precedenza cronologica dell’oralità non abolisce la compresenza e la contemporaneità di ambedue.

Si può inoltre affermare che la scrittura appartiene agli strumenti del potere con cui un individuo vuol garantire la propria supremazia su un altro individuo. Le prime scritture sono quelle dei mercanti e dei giuristi: le leggi e i conti sono scritti. Chi non sa leggere non può che sottomettersi. La scrittura sfocia  così in un’accumulazione destinata a crescere in quanto la scrittura, ed essa sola, autorizza lo sviluppo delle matematiche e con ciò della scienza e della tecnica. È la storia del progresso che iniziava circa tre millenni a.e.v.  con la scrittura nata  a Sumer. La scelta di non scrivere compiuta invece dalle civilizzazione dell’oralità, ne è il rovescio, in quanto rappresenta la decisione di rimanere nella fraternità e un gruppo la cui legge sta nella solidarietà.

Oltre che antistorico, sarebbe, però, errato contrapporre frontalmente queste due scelte, visto che, in larga misura, esse coesistono. La scrittura offre la possibilità di estendere la coppia spazio/tempo al di là del raggio della voce proprio dell’oralità, essa quindi prolunga nel tempo la durata di ciò che non si scriverebbe se non fosse già inciso nella memoria. In fondo lo scritto è un pro-memoria. Parlerei piuttosto, a seconda dei casi, dell’esistenza di una dominante tra queste due culture. La dominante dell’oralità è motivata dalla scelta della solidarietà e la sua architettura è data dalla danza, dal canto, dalla ritualità coinvolgenti tutti e ciascuno e anche dal sentimento di appartenere a una toledà, a una genealogia. Ma attenzione: questa coesione, questa fratria non proteggono (come mostra esemplarmente il racconto delle vicende del patriarca Giacobbe e dei suoi rapporti con Esaù e Labano) dalla violenza anche estrema. Allora in questi casi, la scrittura, la Torà scritta, agisce come regolatore e stabilizzatore della violenza. Robert Alter, nel suo volume L’arte della narrativa biblica (Queriniana, Brescia 1990) mostra come nel ciclo Giacobbe/Esaù, questa scelta della solidarietà sia costantemente minata dalla violenza e come questa tema venga elaborato letterariamente.

La scrittura è invece nella sua dominante scelta di progresso, accumulazione attraverso lo sviluppo di procedure e di tecniche. Ma anche qui, questo progresso può irrigidirsi e in questo caso è la scrittura stessa che tende a mitigarlo incorporando più tradizioni provenienti dall’oralità (le storie di Davide sono un esempio di questo tentativo).

Se a questo punto facciamo giocare insieme Genesi 28,10-22 e 2 Samuele 7, mi pare che si possa notare la stessa tensione fra oralità e scrittura relativa alla casa di Dio (il tempio). Ricordiamoci che Giacobbe pernotta presso un tempio, che la casa di David (che qui ha il senso più di dinastia che di casa) ben presto sarà poggiata al tempio, o meglio sarà il tempio, che viene dopo, a essere poggiato alla casa reale. Il tempio sembra appartenere soltanto alle civilizzazioni della scrittura. È vero allora che esso può far apparire l’altro polo, quello della oralità: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto una tenda» (2Sam 7,2). Il proposito di costruire il tempio è di non lasciare Adonai in situazioni inferiore. Si narra che David dovette differire il progetto che solo Salomone realizzò. In ebraico non c’è un nome proprio per dire tempio, si utilizza per lo più il termine «bait» casa, ma è la casa (e qui entra l’oralità) su cui è invocato lo Shem, il Nome di Adonai.

Oltre alla tensione polare fra oralità e scrittura, in questo caso entra propriamente la tensione fra spazio sacro e tempo allorché, per es. in 2 Sam 7, emerge un contrasto voluto fra i due significati di bait: come tempio–casa di Dio e come dinastia:«poiché a te farà una  casa Adonai» (2 Sam 7,11). David vuole costruire una dimora permanente per Dio e il Signore risponde a David che sarà lui a costruire una casa a David, prevale il senso del tempo.

Forse il racconto della visione notturna di Giacobbe presso Betel, casa di Dio, vuole spingerci verso una trasformazione di intendere la presenza di Dio nella storia dell’uomo, ciò che noi chiamiamo spazio sacro. Lo vuole compiere alla luce della parola di promessa che modifica il senso del tempo di vita dell’uomo. Trasformazione che deve avvenire nella coscienza stessa di Giacobbe, definito da Genesi 25,27 un uomo tranquillo che dimora sotto le tende ma il cui nome Ja‘aqov, può significare tanto «egli ingannerà» (il briccone che inganna), quanto «colui che Dio protegge».

Avviciniamoci allora brevemente al testo di Genesi 28. Quale che sia il grado di storicità che noi attribuiamo alle tradizioni patriarcali,  quanto è chiaro è che questa storia di Giacobbe, come quella di Ghilgamesh o l’Odissea, è organizzata intorno all’uscita dalla patria e al ritorno finale in essa. Il punto di partenza è Bersheva, con Isacco palesemente sul letto di morte; il livello più profondo di significato viene rivelato attraverso incontri numinosi, ai punti di partenza e di arrivo: capitolo 28, Betel, capitolo 32 il fiume Jabboq sulla strada del ritorno, nel  capitolo 35 siamo di nuovo a Betel. Queste esperienze numinose ci invitano a capire la storia come trasformazione attraverso la sofferenza e il conflitto. In tutto ciò non è difficile scorgere qui, attiva, la memoria di coloro ai quali l’egemonia persiana presentò l’opportunità di ritornare dall’esilio e di stabilire una nuova comunità. Memoria che ricostruisce un importante passato che rifletteva e nello stesso tempo consolidava la loro identità come Israel. Per noi qui è significativo che sia Betel  a essere il luogo  dove la promessa della terra e della discendenza viene fatta e rinnovata e  il voto di costruire il santuario viene fatto e mantenuto. È quindi a partire da Genesi 28,10-22 che possiamo osservare al meglio la riformulazione ebraica di cosa significhi la casa di Dio per una città: una trasformazione avviene che riguarda sia Giacobbe/Israele, sia la città Luz/Betel. Giacobbe cambia nome, ma anche la città cambia nome: il primo diviene Israel, la seconda Betel.

Il commento ebraico che incessantemente ritorna a questo testo non fa che rielaborare il tema (già presente nella totalità del testo biblico) della natura della città dell’uomo alla luce della coscienza profetica di Israele. Quanto avviene con il sogno messianico della scala di Giacobbe, riformula e riplasma la coppia spazio sacro/tempo sacro aprendola verso nuovi orizzonti di socialità. Non si tratta soltanto del fatto che qui, come in molte altre parti della Bibbia, emerge la convinzione, comune nel Vicino Oriente antico, che non esiste città senza un proprio Dio che tutela e protegge il tempio cittadino ed esercita la sua funzione cosmica e universale legando le sue sorti a quelle della città di cui è patrono. Dio, che si rende presente in essa - all’inizio attraverso una ierofania, che delimita uno spazio - diviene così il centro dello spazio vitale e comunionale della città. Dio, ponendo la sua dimora nel tempio fa di esso  un axis mundi,  o un onfalos tou kosmou, un asse del mondo o un ombelico della terra (o una scala; questa visione monumentale che ha Giacobbe è ben nota nella storia delle religioni). Luogo-asse che rende possibile la comunicazione fra cielo e terra, organizzato intorno a questo axis-scala, lo spazio cittadino diviene un’imago mundi, microcosmo nel macrocosmo, copia di un mondo sacrale celeste gerarchicamente ordinato. Lo spazio viene così cosmicizzato e il mondo sacralizzato.

Senza questo ‘Dio della città’ e il suo tempio-casa, il mondo ricadrebbe nel tohu wavohu (Gen 1,2), nel caos primordiale. Nella Bibbia (e anche i nostri due testi di riferimento ne sono documento) tale concezione non è affatto a se stante. Non solo qui.  Per es. anche nel salmo 24 ci viene presentata una visione archetipica di questa rappresentazione, quando si dice: «del Signore è la terra e quanto contiene, la terra e i suoi abitanti». Ma poi il seguito del salmo si sposta verso l’ axis mundi allorché al centro viene posto il ‘monte di Adonai  - har Adonai’  - e il suo maqom qadosh-  luogo santo - il tempio, con rimando, alla fine, a Giacobbe-Israele: “tale è la stirpe di coloro che lo cercano, che ricercano il tuo volto,  Giacobbe» (Sal 24,7 secondo il  testo masoretico).

Anche in Israele Dio e città si appartengono reciprocamente e il tempio funge da luogo di relazione/comunicazione fra i due; del resto Luz, che in ebraico significa mandorlo, nella tradizione ebraica diviene il nome archeologico e originale di Gerusalemme, mentre  Betel è fatto coincidere con il monte Moria.

  Nella Bibbia ebraica emerge, però,  una linea di fondo che vede il passaggio dal Dio della città alla città di Dio, si tratti pure di Gerusalemme, del suo re e del suo tempio. Il rapporto della città con Dio appare allora in una luce nuova. Certo, parte della Bibbia e della tradizione di commento mantiene, anche nella Bibbia, la rappresentazione del ‘Dio della città’, eppure sempre più frequentemente al posto del tempio e del monte come garanzia di eterna protezione e tutela della città, appare la città insicura e bisognosa di aiuto, essa stessa chiamata a diventare abitazione santa. A ciò spinge la lenta evoluzione verso il monoteismo avvenuta in Israele. La presenza di Dio non è più orientata primariamente al tempio, ma è diretta alla città stessa e agli uomini che la abitano e all’esigenza di giustizia che la renda città profetica. Incontriamo ora il Dio che, nella sovrana rinuncia al tempio e al monte, cerca di creare un luogo di shalom reprimendo l’ideologia della sicurezza per sé e per i suoi. Adonai ora dona alla città non più la sua onnipotenza, ma la sua presenza che infonde fiducia. Una lettura unitaria di Genesi 28,10-22 spinge l’interpretazione ebraica verso questa direzione nella misura in cui essa vede, nel percorso testuale (fuga di Giacobbe, pernottamento presso la casa  di Dio, visione notturna della scala, parola divina di promessa della terra e di benedizione universale, parola di aiuto, risveglio; riconoscimento da parte di Giacobbe della presenza divina; riformulazione del nome del santuario) il ridestarsi della coscienza profetica in Giacobbe, e il rifiorire di Luz, mandorlo, nella tradizione ebraica albero, profetico per eccellenza. Il fiorire di Luz invera Betel, casa di Dio, città profetica certo ma non al riparo dalla profanazione, identificata Gerusalemme città preziosa fra tutte,ma che può svilirsi al punto di non poter più sussistere all’interno delle sue mura di pietre o di parole. Attorno alla monumentale visione della scala, la cui simbolica collega Israele con le nazioni emerge la specificità della visione ebraica della città dell’uomo per la cui realizzazione in Giacobbe-Israele è necessaria la presenza di Dio che si fa profezia a Gerusalemme.

A me pare che il peso maggiore che grava sul racconto sia di reintegrare Giacobbe-Israele nell’alleanza abramitica. Giacobbe, in un momento drammatico di prova,  fugge, come Giona,  lontano dal Dio del padre, dal Dio che con Abramo ha stretto un’alleanza sospesa alla promessa: «diventerai una benedizione per tutte (al plurale) le famiglie della terra» (Gen 28,14; cfr. Gen 12,2). Giacobbe fugge lontano dal Dio che con Abramo inaugura una storia della promessa che reintegra la città dell’uomo nello shalom creaturale. Diversamente da Giona, scappa perché con le sue azioni ha violato la legge di fraternità che è al fondamento della tradizione monoteistica ebraica, e, in una specie di regressione anteabramitica, si è posto ormai nella genealogia, nella toledà di Caino in cui regnano la gelosia, il falso desiderio di unità, in realtà il rifiuto dell’alterità e la paura dell’altro. Ma tale fuga non ha - come del resto anche per Giona – possibilità di riuscita. La Genesi progredisce secondo una legge che vuole che ogni violenza di un fratello contro un altro faccia avanzare la promessa. Ciò che può apparire un semplice dettaglio narrativo, nella coscienza ebraica è avvertito come un farsi presente di Dio nella storia. Giacobbe giunge nel luogo, maqom, parola che ricorre più volte in questa decina di versi. Questo maqom,  è sì un luogo di culto cananeo, ma soprattutto, nel pensiero ebraico, è uno dei nomi di Dio, detto  ha-Maqom, il Luogo. Secondo un adagio talmudico, non è il mondo il luogo di Dio, ma Dio è il luogo del mondo. E secondo Rashi, il grande commentatore ebraico, Giacobbe esclama: «se avessi saputo che Dio era qui, non mi sarei messo a dormire». Al mattino quando si ridesta avviene un risveglio della coscienza profetica di Giacobbe, con attenzione al fatto che il Maqom, cioè Dio, si trova dove noi ci troviamo e che è possibile ridestare la santità in ogni luogo. «Certo il Signore è bamaqom ha-zeh (in questo  luogo) e io non lo sapevo» (Gen 28,17).  È al risveglio che Giacobbe lancia il programma di Betel, della casa di Dio, dell’edificazione di questa casa aperta che saprà vincere l’usura dei secoli meglio della città, cittadella dispotica, che crede di poter opporre la pietra al tempo. Essa, infatti, avrà preso il senso della durata che non nasce dalla chiusura delle porte, ma dalla loro apertura. Una civilizzazione dell’accoglienza, questa è la proposizione di alleanza che Giacobbe formula allorché la ’even, la pietra, eretta in stele, è congiunta con una parola di condivisione dei beni della terra: «Di quanto mi dai io ti offrirò la decima» (Gen 28,22).

Betel, la casa di Dio si disloca dal tempio di pietra immobile nello spazio, e diventa un vettore verso un tempo gerarchicamente pietrificato verso la mobilità di una casa di Dio che è ha-maqom, il luogo: il luogo/presenza di Dio che si muove con l'uomo: «Ecco io sono con te e ti proteggerò ovunque andrai» (Gen 28, 15). La storia della promessa può reiniziare «…e saranno benedette in te tutte le famiglie della terra» (Gen 28,14): Giacobbe viene reintegrato nella promessa dell’alleanza abramitica. Così si espande il maqom nel riconoscimento dell’alterità di Dio che apre verso l’accettazione dell’altro e spinge verso un’etica effettiva, quella che si esercita nel mondo del bisogno, che procura il pane mancante o ripara il vestito spezzato: etica dell’alleanza.

La costruzione della torre di Babele (Babel: «porta di Dio») a questo punto potrebbe, retrospettivamente, essere interpretata come il controracconto del sogno della scala di Giacobbe. Tuttavia a Dio la scala di Babel sembrò allora,  che funzionasse a senso unico, che producesse una parola-monologo senza alterità, che segnasse inesorabilmente il destino dell’uomo verso un avvenire senza libertà. Dio, perciò, bloccò il progetto. Nella visione notturna a Betel sulla scala fissata in terra e che ha, come quella di Babele la testa nei cieli, i messaggeri divini salgono e scendono: movimento, reversibilità segnano la parola che fa da scala fra i due mondi. Questi messaggeri, nella tradizione ebraica, portano i nomi dell’alleanza: verità e giustizia, diritto e bontà. Ecco, una volta che, attraverso la visione notturna di Giacobbe, il racconto biblico ha riorientato, la storia, sia spazialmente, sia risvegliando lo sguardo profetico di Ja‘aqov /Jisrael sulla città dell’uomo, il cammino del patriarca e del suo popolo, Israele, può continuare.

 

Pietro Lombardini