APPROFONDIMENTI CULTURALI – xli                                                             (ANNO xxi, n. 1)

 

 

Creati dagli animali?

 

Pubblichiamo un significativo articolo scritto a sei mani (tutte umane!) apparso su Regno-attualità 10,2006. pp.290-295. Il testo prende lo spunto dal convegno: «Che cos’è la natura umana?» promosso dall’Istituto Trentino di Cultura svoltosi il 14-15 marzo 2006.  Ringraziamo gli autori e la rivista per il permesso.

 

Evoluzionismo, disegno intelligente e natura umana

 

«L’uomo nella sua arroganza si considera una grande opera, degna dell’interposizione di una divinità; è più modesto e, secondo me, più giusto considerarlo creato dagli animali» (C. Darwin, Notebook C, pp. 196-197).

Ripensando ai dibattiti e alle polemiche sorte negli ultimi mesi intorno all’evoluzionismo viene spontaneo chiedersi perché sia così difficile per le nostre società venire a patti con le teorie darwiniane. In fondo, nel corso degli ultimi secoli, abbiamo dovuto ingoiare parecchi bocconi amari e medicare quelle che Freud ha notoriamente definito le «ferite narcisistiche» inferte al nostro io dalle scoperte scientifiche e che, più sobriamente, si potrebbero forse chiamare offese al senso comune.

Abbiamo ad esempio dovuto venire a patti con l’idea di un universo infinito e tutt’altro che a misura d’uomo, con differenze antropologiche e culturali di proporzioni inaspettate, con una struttura invisibile della materia francamente imprevedibile, ecc. Ma Darwin sembra davvero un osso troppo duro da masticare per molti. Perché?

  Non è facile rispondere in maniera convincente a questa domanda. Chi si sofferma senza pregiudizi su questi argomenti ha spesso l’impressione di trovarsi di fronte a una matassa intricata di temi, interessi, problematiche molto difficile da dipanare e in cui le questioni strettamente scientifiche recitano in molti casi un ruolo se non secondario comunque relativamente subordinato. Volendo riassumere in una sola battuta il nucleo della controversia, si potrebbe dire che, in ultima istanza, lo «scandalo» delle teorie darwiniane sembra avere a che fare con la prospettiva, che esse lasciano presagire, di un possibile definitivo divorzio tra la mente e la natura.

Per divorzio tra mente e natura bisogna intendere essenzialmente questo: l’impossibilità di ritrovare o riconoscere qualcosa di familiare nei processi naturali, ovvero nulla di ciò con cui abbiamo quotidianamente a che fare nelle nostre vite: fini, progetti, intenzioni, significati, valori, un ordine riconoscibile, ecc. Ma che fine fa la mente e tutto ciò che di prezioso essa comporta per molte e persino antagonistiche visioni del mondo (non importa se laiche o religiose) una volta che essa non trova più spazio nella natura, tanto più quando la natura stessa esaurisce tutto ciò che esiste?

Qui si nasconde il nocciolo di quella che Daniel Dennett, forse il principale esponente del darwinismo filosofico contemporaneo, ha definito «l’idea pericolosa di Darwin», quell’acido universale che «corrode quasi ogni concetto tradizionale, lasciando dietro di sé una visione del mondo rivoluzionata, con la maggior parte dei vecchi punti di riferimento ancora riconoscibili, ma trasformati in maniera sostanziale» (D. Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, Torino 1997, p. 77).

 

Lo spaesamento

 

La visione della natura proposta da Darwin è in effetti rivoluzionaria. Proseguendo sulle orme della rivoluzione scientifica moderna essa ne radicalizza il rifiuto di ogni prospettiva antropomorfica, approfondendo il senso di spaesamento che caratterizza la relazione dell’uomo moderno con il cosmo e intorno a cui l’esistenzialismo novecentesco ha costruito la propria influente posizione filosofica.

Ma se l’universo non ci assomiglia o, meglio, se esso non è a nostra misura, come va interpretata la nostra strana posizione nel cosmo? In fondo, per quanto ne sappiamo, siamo noi gli unici esseri viventi che si pongono il problema di spiegare ciò che avviene nel mondo, che s’interrogano su se stessi, sui propri doveri e interessi. Siamo noi a scoprire le leggi che guidano l’evoluzione biologica. Anche questo apparente «prodigio» può essere spiegato alla luce degli stessi principi ciechi e meccanicistici che spiegano l’evoluzione delle forme della vita sulla terra? Non abbiamo forse buoni motivi per considerarci qualcosa di superiore o differente dalla restante parte del mondo animale? Come si spiegano naturalisticamente la mente, l’intelligenza, la morale?

Con la sua spiegazione evolutiva dell’origine o discendenza di tutte le specie da un antenato comune tramite un meccanismo «cieco» di selezione naturale, Darwin ha dunque senza dubbio rivoluzionato o quantomeno posto le premesse per una rivoluzione anche nel nostro modo di comprenderci, di intendere la nostra umanità. Anzi, lo scandalo suscitato dalle teorie darwiniane ha essenzialmente a che fare con questo aspetto della questione: l’interpretazione della natura umana.

Noi umani, più in particolare noi occidentali moderni, fatichiamo a considerarci come una semplice parte del restante mondo animale. E il motivo è facilmente comprensibile. La gran parte di noi vive in ambienti molto artificiali e l’ambiente esterno con cui ci confrontiamo quotidianamente è stato talmente trasformato dalla tecnologia che a molti viene spontaneo chiedersi quale sia ormai la nostra relazione col mondo da cui pure proveniamo.

Tuttavia, nemmeno noi possiamo negare che per molti aspetti siamo straordinariamente simili agli altri esseri viventi: come loro abbiamo un metabolismo e dei bisogni fondamentali da cui non possiamo prescindere, abbiamo dei sensi con cui esploriamo il mondo, abbiamo istinti, emozioni e, soprattutto, siamo composti da cellule la cui attività è regolata dal codice genetico che accomuna tutti gli esseri viventi. Eppure fatichiamo ad accettare l’idea che gli altri animali siano davvero nostri parenti diretti. Da che cosa dipende questa singolare riluttanza?

Il fatto è che alcuni dei cardini della prospettiva darwiniana entrano in collisione con gli immaginari metafisici, morali e sociali su cui si basano molte delle pratiche cruciali per le nostre società liberaldemocratiche (si pensi solo alle istituzioni politiche democratiche; alle consuetudini che regolano i rapporti tra i sessi; alle pratiche relative all’igiene personale; più in generale alle leggi che regolano la nostra convivenza civile).

Alcune di queste pratiche poggiano, ad esempio, su una certa concezione dello status morale eccezionale della persona umana, sull’uguaglianza tra gli individui, su un’idea drastica della distanza che separa l’uomo dalla restante parte del mondo animale e naturale, in sostanza su assunti umanistici, se non addirittura antropocentrici, non sempre facili da conciliare con una visione darwiniana della natura che, com’è noto, è basata sull’idea di una selezione naturale degli individui cieca ai valori, sulla sopravvivenza del più adatto in una competizione febbrile per risorse limitate, sulla gradualità evolutiva tra le diverse forme di vita, in particolare tra le diverse specie animali.

 

Dall’astratto al concreto

 

La prima cosa che merita di essere osservata è che gli immaginari in questione non sono per lo più il frutto di una riflessione astratta od obiettiva. Non è che ciascuno di noi li abbia sempre ben presenti davanti agli occhi mentre è immerso nelle proprie attività quotidiane. Abbiamo qui a che fare, piuttosto, con un orizzonte globale di senso in cui si mescolano conoscenze tacite, giudizi di valore, aspettative nei confronti della realtà, ecc.

Su di essi la ricerca scientifica può esercitare al massimo un’influenza indiretta e, peraltro, essa stessa ne subisce più o meno esplicitamente l’influsso (in senso positivo o negativo, di adesione implicita o rifiuto totale). Si tratta dunque di forme di sapere pratico particolarmente resistenti al cambiamento. Senza una simultanea trasformazione delle pratiche è molto difficile che questi immaginari possano scomparire dall’oggi al domani a seguito di un puro sforzo intellettuale.

Va poi tenuto presente che con la nascita della società moderna questi immaginari sociali e morali hanno cessato di costituire una totalità coesa e compatta, hanno perso il loro statuto di ovvietà incontrastata, e da secoli avvengono intorno a essi dei conflitti per l’egemonia non dissimili dalla contesa pacifica per il potere che si verifica all’interno delle società democratiche. In una civiltà sostanzialmente priva di un forte centro di gravità intellettuale come la nostra esiste, infatti, una permanente conflittualità culturale che ha per oggetto proprio la comprensione comune dei nostri fini, valori, radici, ecc., e che non può essere risolta aprioristicamente da alcuna autorità scientifica, religiosa, politica.

In altri termini, nelle nostre società esiste un ragionevole e strutturale disaccordo sulle risposte da dare agli interrogativi esistenziali fondamentali (Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?). In questo senso chiunque nelle nostre società deve rassegnarsi a vedere frustrate le proprie pur legittime aspirazioni a una sintesi o a una razionalizzazione definitiva. Siamo destinati a convivere con la pluralità dei punti di vista e con un certo inevitabile margine di oscillazione nell’adesione delle persone a quelle che John Rawls, forse il principale teorico delle democrazie liberali contemporanee, ha definito le «dottrine comprensive», ovvero le diverse visioni del mondo, più o meno ragionevoli. Può essere avvilente, ma crediamo che anche i razionalisti più accesi dovranno prima o poi rassegnarsi a questa interminabile disputa sulle opinioni.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare che in alcuni casi quella che qui viene descritta come una nobile contesa tra ideali o immaginari sociali è semplicemente l’alternativa tra la conoscenza scientifica e una crassa ignoranza. È difficile negare che in molti casi esista davvero un’ignoranza abissale. È tuttavia essenziale sfuggire a quelle contrapposizioni un po’ manichee secondo cui da una parte starebbe sempre la ragione e dall’altra l’oscurantismo bigotto, oppure le forze del progresso e quelle della reazione.

Questi conflitti culturali profondi non si prestano, infatti, a interpretazioni troppo schematiche e, in fondo, ciascuno di noi dovrebbe ammettere con sincerità che non esiste il monopolio del conformismo, della supponenza e, perché no, della crassa ignoranza che, inevitabilmente, è presente anche in chi pratica la scienza o in chi, con minore o maggiore successo, si dedica alla riflessione filosofica o teologica. Per di più, in questa sorta di reiterati Kulturkämpfe i fronti sono spesso molto meno netti di quanto le fazioni più estreme vorrebbero farci credere.

 

Il darwinismo sociale

 

Vale forse la pena di ricorrere a un esempio storico per provare a mostrare come spesso anche nei casi apparentemente più nitidi di conflitto tra ragione e oscurantismo si nascondano delle interessanti ambiguità. Il caso in questione è quello di un famoso processo celebrato nell’America degli anni venti, l’antesignano di una lunga serie di scontri giudiziari tra i creazionisti e i difensori della teoria dell’evoluzione che hanno avuto come teatro il Sud degli Stati Uniti: lo Scopes Trial. Questo processo, che si tenne originariamente a Dayton (Tennessee) nel 1925, è diventato famosissimo anche perché gli è stata dedicata prima una pièce teatrale intitolata Inherit the wind, da cui è stato tratto poi nel 1960 un film di successo (distribuito in Italia con il titolo E l’uomo creò Satana), diretto da Stanley Kramer e con Spencer Tracy nella parte di Clarence Darrow, l’avvocato di John Scopes, l’insegnante di biologia al centro della contesa giudiziaria. Il personaggio più interessante della vicenda era però William Jennings Bryan, uno dei principali esponenti del populismo democratico americano, tre volte candidato alla presidenza, che mise a disposizione del fronte antievoluzionista le proprie non esigue capacità retoriche.

Come fu possibile un simile rimescolamento dei fronti? Lo ha spiegato molto bene, alcuni anni fa, Stephen Jay Gould in un saggio intitolato «L’ultima campagna di William Jennings Bryan» (in Risplendi grande lucciola, Milano 1994, pp. 177-192), dove risulta chiaro come furono l’opposizione al darwinismo sociale, alle teorie eugenetiche, al militarismo, all’elitarismo degli intellettuali, a spingere Bryan ad allearsi con i fondamentalisti cristiani e a rivolgere tutta la sua eloquenza contro una certa interpretazione delle conseguenze etiche, politiche e sociali della visione darwiniana che egli aveva finito per identificare tout court con l’evoluzionismo.

L’operazione intellettuale di Gould è doppiamente interessante in quanto rivela una rara capacità di percepire la carica morale racchiusa anche in una posizione da lui non condivisa e, soprattutto, le ambiguità connesse a tutti i tentativi di «dilatare in modo eccessivo i confini della scienza», dimentichi del fatto che «noi conviviamo con poeti e politici, predicatori e filosofi. Tutti hanno i loro modi di conoscenza, i quali sono tutti validi nei loro ambiti. Il mondo è troppo complesso e interessante perché un modo solo possa contenere tutte le risposte» (p. 190).

Riassumendo, si potrebbe dire che nella contesa ormai più che secolare intorno al darwinismo esistono motivazioni etiche profonde che guidano i migliori esponenti di entrambi gli schieramenti e che con ogni probabilità esercitano una forte attrazione anche su molti di noi, le cui adesioni ideali sono spesso scisse, intrecciate, se non addirittura lacerate. Non ci si può aspettare che gli schieramenti siano ben delineati, quando la posta in gioco è così alta. In fondo, non c’è nulla di male ad avere le idee un po’ confuse su questioni così importanti e complesse.

 

Fare pace con Darwin?

 

In questo senso si può dire che non è e non sarà semplice nella nostra cultura e società fare definitivamente la pace con Darwin, e pertanto la discussione è destinata a durare ancora a lungo: la posta in gioco è talmente alta che l’accettazione totale delle tesi di Darwin comporterebbe un riaggiustamento complessivo delle nostre credenze e delle pratiche che su di esse si basano non solo difficile da realizzare, ma per alcuni aspetti forse nemmeno auspicabile.

Questa presa d’atto dovrebbe suggerire a tutti di affinare il proprio senso del limite e rassegnarsi a convivere con una situazione non nitida in cui, peraltro, possono coesistere pacificamente la fiducia nella comunità scientifica e il rifiuto motivato a concedere a chiunque una delega in bianco per quanto concerne le questioni che segnano più in profondità la convivenza sociale. Un atteggiamento simile si addice tanto più agli intellettuali, il cui ruolo non può e non dovrebbe consistere nell’afferrare uno stendardo e mettersi alla guida di un plotone in marcia verso le «magnifiche sorti e progressive», quali che esse siano.

Come ha scritto Czesław Miłosz in alcuni splendidi versi dedicati a un altro poeta, Robinson Jeffers, celebre per la sua visione dura e spietata della realtà, non è poi così scandaloso o irragionevole che di tanto in tanto si affacci anche nelle menti più disincantate il dubbio che sia «meglio scolpire il sole sulle congiunture delle croci / come facevano dalle mie parti. Dare nomi femminili / ad abeti e betulle. Invocare protezione / contro la forza muta e scaltra / piuttosto che come te annunziare una cosa inumana» («A Robinson Jeffers», in C. Miłosz, Poesie, Milano 1983). […]

 

La sfida creazionista

 

Il tema è particolarmente attuale in considerazione del recente riemergere – in ampi settori dell’evangelismo statunitense, ma anche in aree a noi ben più vicine – di una comprensione fondamentalista della nozione di creazione, utilizzata in contrapposizione alla descrizione post-darwiniana dell’evoluzione biologica. Certo, non si tratta più di quell’approccio rozzo, che ancora nei primi decenni del secolo appena concluso poteva opporre a ogni forma di mutamento la mera affermazione di un’immediata origine divina di tutti gli esseri, nella loro forma attuale. L’ampia gamma di prove sperimentali rende ormai ben difficile contestare il fatto dell’evoluzione biologica; la strategia di opposizione al darwinismo ha dovuto farsi più raffinata.

Quella che viene adesso messa in discussione dal neo-creazionismo è, quindi, l’adeguatezza scientifica di una descrizione puramente naturalistica delle dinamiche evolutive, in cui le interazioni sarebbero rette solo dal caso e dalla necessità (secondo l’espressione del genetista francese Jacques Monod). In tale prospettiva sarebbe invece necessario postulare un «Disegno intelligente» per rendere davvero ragione della complessità del reale che sperimentiamo.

Quella stessa scienza che rileva la presenza nel cosmo di forme di ordine – inclusa, in particolare, la nostra stessa esistenza di osservatori intelligenti – non sarebbe, cioè, in grado di renderne ragione con le metodologie che le sono proprie, in termini di rapporti tra cause ed effetti. Essa si vedrebbe, così, costretta a ricorrere a un’intelligenza creatrice trascendente, alla cui intenzionalità progettante andrebbe ricondotto l’ordine presente nel reale.

È su questa base ideologica che negli Stati Uniti numerose organizzazioni religiose hanno chiesto la concessione di una pari dignità a evoluzionismo e creazionismo nell’insegnamento scolastico della biologia. Per i proponenti anche la seconda posizione andrebbe considerata come un’ipotesi scientifica circa l’origine della vita e come tale andrebbe insegnata nelle scuole. La strategia critica nei confronti della biologia evoluzionista è qui, dunque, finalizzata a un diretto reinserimento del discorso religioso all’interno di quello scientifico. […]

Non stupisce che negli Stati Uniti tali tesi siano state nettamente rigettate: il creazionismo è stato dichiarato dottrina religiosa, che soltanto come tale può essere insegnata nelle scuole, mentre la qualifica di scientifico va riservata a ciò che esprime una ricerca metodologicamente laica […]

 

L’interrogativo  evoluzionista e la teologia

 

Secondo Telmo Pievani vi sono debolezze nelle strategie che mirano a estenuare il valore dell’approccio evoluzionista. Spesso esse fanno riferimento a immagini caricaturali del sapere biologico, che sarebbero effettivamente incapaci di affrontare problemi complessi; così facendo, però, esse svelano pure una sostanziale incomprensione dei sottili meccanismi che la biologia contemporanea ha insegnato a cogliere nelle pieghe di un reale in evoluzione.

In verità, quando alla strategia neo-darwiniana venga effettivamente consentito di dispiegarsi in tutta la sua articolazione, resta ben poco nel mondo della vita che essa non sia in grado di interpretare. Alle prove fossili, a quelle anatomico-comparative e a quelle provenienti dalla genetica molecolare, si unisce ormai una cospicua evidenza di esperimenti di laboratorio, a offrire una fondazione forte per quello che costituisce il nucleo esplicativo centrale del discorso biologico.

Dovremmo allora, forse, rovesciare il verso dell’interrogazione? Sarebbe forse quella legittimazione forte che indubbiamente occorre riconoscere alla comprensione neo-darwiniana dell’evoluzione a mettere in discussione la possibilità di parlare in termini teologici del mondo?

Secondo Orlando Franceschelli, non c’è dubbio che la prospettiva emersa dalle ricerche di Darwin permetta di rendere ragione, in un ambito puramente naturalista, del reale quale lo sperimentano le scienze, coinvolgendo anche il mondo della vita in quel processo di disincanto che caratterizza la modernità. Dopo Darwin, alle scienze non è più necessario un Dio ordinatore per spiegare la presenza di ordine nel mondo; la natura non deve più necessariamente essere vista come creazione. Un evoluzionismo, dunque, necessariamente a-teo?

Occorre, in realtà, essere attenti: la non-necessità di Dio per la spiegazione scientifica non implica in alcun modo la negazione della sua esistenza. Quello stesso ateismo cui si orientano alcuni neodarwinisti non è affatto una conseguenza necessaria del dato scientifico. Anche se le scienze parlano dell’evoluzione della vita senza utilizzare alcuna nozione di tipo teleologico, ciò non significa che esse non possano essere utilizzate da altri livelli di discorso sul reale.

È un dato che da un punto di vista teologico era stato già nitidamente colto da Karl Rahner: quella finalità che la teologia afferma come necessaria espressione dell’azione di Dio nel reale non deve necessariamente porsi su un piano accessibile alle scienze. Certamente la teologia afferma un agire divino che opera attraverso la storia e la creazione; certamente essa confessa «l’amor che move il sole e l’altre stelle», quale elemento qualificante della fede cristiana, ma lo fa nel segno del mistero, della non-evidenza, dell’opacità.

La causalità divina non può essere semplicemente accostata all’agire delle cause intramondane, magari per colmarne le lacune: sarebbe un ritorno a quella figura di Dio-tappabuchi che già Dietrich Bonhoeffer ha puntualmente criticato. Al contrario, essa è trascendentale, opera facendo sì che le cose si facciano secondo le dinamiche loro proprie. La confessione di una presenza divina entro il creato non rinnega, insomma, in alcun modo il portato della ricerca scientifica: la natura viene lasciata intatta nella sua laica apertura all’indagine razionale.

Non stupisce, allora, che, quando le Scritture ebraico-cristiane confessano il Dio salvatore, ne parlino come di colui che si cela, che agisce nel segreto, mentre le sue tracce restano nascoste. Non è casuale che a essere detto «Signore che dà la vita» sia lo Spirito […] L’affermazione del suo agire si colloca non nell’ordine della necessità, ma piuttosto in quello della gratuità, di una libertà che opera entro e attraverso la legalità scientifica, ma senza lacerarla.

Un pensiero cristiano dovrà allora evitare di contrapporre in modo troppo semplicistico una rigorosa teleologia, teologicamente fondata, alla casualità che sarebbe associata al linguaggio neo-darwiniano. La figura del grande progettista non appare adeguata alla ricca immagine di Dio che ci viene offerta da una Scrittura che è profondamente attenta alla radicale dimensione di contingenza della creazione.

 

Cercare ancora

 

Sono temi che meritano certo ulteriore approfondimento, che domandano una ricerca da sviluppare ancora, sul piano teologico come su quello filosofico. […] Il dialogo interdisciplinare […] è estremamente prezioso per la teologia, che si vede così stimolata al confronto con una varietà di saperi. Essa può, così, esplicitare quella capacità di interloquire in modo competente con le scienze (umane come naturali) cui la invita Wolfhart Pannenberg […] Percorrendo le tappe della discussione che negli ultimi anni si è sviluppata intorno al tema, emerge la necessità di un appello alla saggezza, utile soprattutto per mettere in guardia da distorti usi del dibattito stesso. Non a caso, infatti, la ripresa di tesi creazionistiche, prevalentemente negli USA, sebbene si presenti con colorazione e contenuti altamente teologici, non ha avuto in realtà una motivazione squisitamente teologica.

Il fatto che il dibattito si sia posto spesso in contesto politico e abbia avuto come attori non sempre rappresentanti delle discipline teologiche fa sorgere il sospetto che le intenzioni ultime fossero da collocarsi ad altri livelli. In definitiva si è fatto ricorso alla teologia, ma per mettere in campo altri problemi, prevalentemente quelli etici, sia sul fronte della bioetica, sia sul fronte dell’etica politica.

Una simile funzionalizzazione della teologia ad altri scopi non è priva di pericolo e risulta in definitiva di difficile legittimazione. Essa proclama a un tempo la débâcle dell’etica, non più in grado di argomentare in sede propria e con ragionamenti razionali, e fa dell’appello ai contenuti teologici un’indebita operazione, compensando nella teologia una sorta di irrilevanza culturale con un nuovo protagonismo di interpretazione della realtà.

La ri-teologizzazione dell’etica e la ripresa di rilevanza del discorso teologico a mezzo di contenuti sospetti sono da ambo le parti dannosi tentativi, in ultima analisi neppure in grado di dare quello che promettono. L’effetto evidente è solo lo snaturamento sia sul piano epistemologico sia sul piano funzionale, sia della teologia sia dell’etica. Da questo uso ambiguo la saggezza deve metterci in guardia.

 

Riconoscere la complessità

 

Quando ci si affaccia alle questioni sollevate dal dibattito sull’evoluzionismo, inevitabilmente si va a toccare un nodo centrale che anche la teologia ha sempre tenuto in massima considerazione, sebbene da esso abbia ricavato di volta in volta risposte e visioni differenti: il luogo del corpo.

Il superamento di una visione dualistica e manichea della corporeità appartiene al patrimonio del pensiero teologico, almeno nella sua comune espressione. La ripresa di una concezione creazionistica avrebbe inevitabilmente una ricaduta anche su questa maniera d’intendere il corpo. Il pericolo è quello di una nuova attribuzione di normatività etica alla natura umana, intesa come natura corporea dell’uomo. Si avrebbe, cioè, una nuova concentrazione di determinazione dei giudizi morali a partire dalle strutture che regolano la sfera corporea e le sue funzioni. Il corpo non sarebbe primariamente espressione e luogo di manifestazione della densità di soggetto dell’uomo, ma assumerebbe una valenza sua propria, si renderebbe autonomo rispetto al soggetto, anzi gli detterebbe leggi e regole di comportamento.

Sul problema della corporeità il cristianesimo  e, in definitiva, ogni religione vanno a giocarsi il loro destino. Esse stanno o cadono a seconda di come trattano la sfera corporea e di come sistemano teoreticamente e praticamente questa sfera con la densità di soggetto come spazio antropologico da riconoscere e da valorizzare. Ecco perché la soluzione di questa questione non è indifferente rispetto alla visione religiosa che la ispira.

Attraverso questo passaggio mediante la corporeità e la sua maniera di essere considerata, la questione d’insieme dell’evoluzionismo versus il creazionismo alla fine si rivela come un vero e proprio luogo teologico. Essa riguarda la religione e le consente un futuro, a condizione di non servirsi di essa, ma neppure di trarre da essa le risposte che invece oggi vanno cercate nella più ampia sfera di considerazione scientifica, sebbene sensibile alla dimensione antropologica e aperta alla questione del senso.

Antonio Autiero,

Paolo Costa,

Simone Morandini