APPROFONDIMENTI CULTURALI - XXXVI
Dal Notiziario semestrale - Anno XIX -
N.2 - Maggio 2005
La Bibbia nel contesto culturale italiano
Non di rado ci si chiede quale sia il
posto riservato alla Bibbia nell'ambito di una cultura, quella italiana,
tanto a lungo poco familiare con quelle pagine. Si può davvero
parlare di una consistente rinascita? Vari segnali sembrano andare lungo
questa linea; altri invece paiono incamminarsi in direzione opposta. Questa
situazione ibrida fa sì che da un lato si noti un interesse senza
precedenti per il testo biblico e dall'altro si rilevi un'ignoranza crescente
dei riferimenti biblici un tempo da tutti conosciuti. Tale apparente contraddizione
merita di essere decifrata.
In effetti questo stato di cose non è affatto contraddittorio se
si tiene conto che la Bibbia rientrava a pieno titolo in quel genere di
testi in qualche modo conosciuti anche da chi non li ha mai letti. Per
conoscere Pinocchio non è necessario aver preso in mano il libro
di Collodi e Cappuccetto rosso è noto persino a chi ignora l'esistenza
stessa di Perrault. Un tempo alcuni fondamentali riferimenti biblici si
diffondevano semplicemente per sentito dire. Per ricorrere a una prova
di basso profilo basta pensare a molti modi di dire un tempo notissimi:
"qui ci vuole la pazienza di Giobbe", "smettila con
queste geremiadi", "medico cura te stesso", "nessuno
è profeta in patria", ecc.. Tuttavia non era questa presenza
diffusa a costituire l'ossatura di fondo grazie alla quale i personaggi
biblici erano molto più noti quando la Bibbia veniva meno letta.
In virtù di una scelta strategica compiuta dalla Chiesa postridentina
la Scrittura fu a lungo conosciuta nella forma sostitutiva e mediata della
"storia sacra". Essa veniva cioè esposta in modo catechetico
e divulgata lungo un itinerario preciso e unitario che metteva in fila
le vicende e le figure bibliche partendo da Adamo per giungere fino a
Gesù e agli apostoli. I bambini che frequentavano il catechismo
e le persone che andavano in chiesa conoscevano questo racconto interpretativo,
conoscevano Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè. Giosuè,
Sansone, Samuele, Saul, Davide, Isaia e Geremia non meno di Pietro, Giacomo,
Giovanni, Matteo o Paolo.
Poco si comprende dello status della Bibbia in Italia senza tener
conto sia del passato predominio della storia sacra, sia della crisi irreversibile
a cui essa è andata incontro nel postconcilio. Quanto è
definitivamente tramontato è proprio il tessuto catechetico che
metteva in fila i personaggi biblici e dava una lettura unitaria e monocorde
delle vicende della Scrittura. Per questo tipo di approccio fin dalla
prima pagina tutto doveva essere chiaro. Nella sua griglia interpretativa
il peccato originale non poteva che rimandare subito alla croce e la maledizione
del serpente doveva essere per forza un protovangelo che annunciava Maria.
Allo stesso modo avveniva per tutte le pagine successive dominate da un
senso di preannuncio, o meglio di previsione, che allora pareva il contrassegno
certo della profezia.
Questo approccio non accostava i fedeli alla Bibbia. La sua funzione era
un'altra: far conoscere in modo parziale e selettivo qualcosa della Scrittura.
Contro questo modello hanno operato in modo convergente fattori tra loro
eterogenei. Un ruolo rilevante nella sua scomparsa va certamente attribuito
al processo di secolarizzazione della società e di caduta della
'devozione' che hanno ristretto il raggio di coloro che potevano essere
raggiunti per questa via. L'osservazione non è però sufficiente.
Accanto ad essa va posto in debita evidenza il ruolo svolto dallo stesso
ritorno conciliare alla Bibbia. La maggiore frequentazione delle pagine
bibliche, l'aver legittimato e praticato approcci alla Scrittura storico-critici
e letterari, l'attenzione ecumenica per il mondo protestante, il crescente
interesse per l'esegesi giudaica e soprattutto la riforma liturgica che
ha reso direttamente comprensibile all'orecchio dei fedeli molti brani
dell'uno e dell'altro Testamento sono tutti fattori incompatibili con
il predominio esclusivo assegnato in precedenza alla storia sacra.
Queste convinzioni, assieme ad altri apporti conciliari, hanno contribuito
a una profonda ridefinizione della modalità con cui si svolge la
catechesi. Imperniata sulla trasmissione di nozioni da apprendere, la
catechesi fu a lungo preoccupata di inculcare conoscenze (non a caso Ğandare
alla dottrinağ significava, popolarmente, frequentare il catechismo).
Questa alfabetizzazione catechetica comprendeva come suo sottoinsieme
la storia sacra, approccio anch'esso incentrato su un chiaro impianto
dottrinale. La nuova catechesi, facendo proprie istanze pedagogiche attente
alla soggettività infantile e adolescenziale, ha abbandonato, con
buone ragioni, questo modo di procedere. La scelta è stata però
pagata con una caduta verticale della conoscenza media dei contenuti della
fede. Prima comunione e cresima sono tuttora pratiche diffuse; per ricevere
quei sacramenti bisogna ancora frequentare il catechismo, esso però
inculca ormai pochissimi contenuti della fede e tantomeno espone a grandi
linee la storia sacra. Questo vuoto non ha trovato sostituti. L'alfabetizzazione
catechetica proposta dalla Chiesa non è più biblica, al
più si presenta ai bambini qualche pagina del Vangelo, mossi dalla
fideistica fiducia che esso possa parlare a tutti e in particolar modo
agli animi infantili.
La lacuna nella trasmissione di base della storia sacra non è affatto
supplita dalla scuola. Essa non ha mai davvero prospettato alcun efficace
e sistematico programma di cultura biblica. L'IRC lo prevede, ma per una
ben nota serie di ragioni, esso viene sviluppato assai raramente. Inoltre
la scelta culturale compiuta per l'ora di religione le impedisce di riproporre
alla lettera il vecchio schema catechetico della storia sacra. In ogni
caso, in concreto, l'IRC risente largamente, nelle scuole secondarie,
della pressione esercitata dalla componente esperienziale e dalla volontà
di discutere problemi etico-psico-sociologici; mentre, nelle primarie,
la storia sacra patisce del ruolo sempre meno sistematico attribuito alle
'grandi narrazioni' diacroniche. Si aggiunga poi che per un lungo e tenacissimo
ostracismo culturale le altre discipline scolastiche semplicemente ignorano
il decisivo apporto legato alla Bibbia.
Non è azzardato concludere che le due grandi istituzioni di formazione
culturale degli italiani, Chiesa e scuola, non forniscono ormai alle nuove
generazioni i rudimenti biblici propri della storia sacra, mentre continuano
a essere incapaci di sostituirli con una cultura biblica diffusa in modo
capillare e organico. In effetti in Italia vi è un'altra e ancor
più efficace fonte di alfabetizzazione culturale: la televisione.
A parte alcuni programmi di nicchia, essa rispetto alla Bibbia propone
al grande pubblico solo sceneggiati che nella loro successione diacronica
conservano qualche memoria della storia sacra. Su questo fronte un ruolo
importante, sia come vecchio presidente della RAI sia nel successivo ruolo
di presidente della Lux Vide, va attribuito a Ettore Bernabei. La sua
formazione cattolico-catechetica traspare infatti in modo netto nella
maniera, tenacemente perseguita, di diffondere con i mezzi audiovisivi
la conoscenza della Bibbia. Attualmente però questo modello non
può essere più attuato in modo sistematico e coerente, e
non solo per motivi di palinsesto. Non può essere realizzato proprio
perché non è più consentito veicolare in modo pubblico
e aconfessionale un impianto sostanzialmente catechetico. Bisogna tener
conto del pluralismo ed è ormai d'obbligo consultare rabbini e
pastori protestanti. I singoli episodi si presentano perciò sostanzialmente
come realtà autonome non collegate da una linea portante. Insomma
la televisione procede grosso modo come il cinema: tra tutti i filoni
vi è anche quello biblico costituito da prodotti diversi per qualità
e provenienza che non possono fornire allo spettatore alcun quadro di
insieme e che raggiungono il grande pubblico solo quando, per una serie
di circostanze, divengono un 'caso', un 'evento' o innescano polemiche
(cfr. The Passion).
Diverso il discorso per quanto concerne i libri. Qui, tanto nell'editoria
cattolica o protestante quanto, sia pur in modo minore, in quella laica,
abbondano testi divulgativi e specialistici che consentirebbero a tutti
di accostarsi in modo adeguato alla Bibbia. In quest'area l'interesse
per la Scrittura è andato sicuramente incrementandosi. Tuttavia
in Italia il numero delle persone che si avvicinano alla Bibbia attraverso
il canale principe della lettura resta nel complesso relativamente limitato.
Inoltre quel cumulo di pubblicazioni appare molto vario per intenti e
interessi. Tirando le somme non è quindi azzardato concludere che,
per quanto in molti settori cresca l'attenzione nei confronti della Bibbia,
aumenti, specularmente, anche il numero, ben più elevato, di coloro
che ormai non ne sanno più nulla. Questa constatazione spiega l'apparente
paradosso della simultaneità tra aumento di interesse per la Scrittura
e crescente ignoranza di base delle figure e delle storie bibliche. Infatti
attualmente la Bibbia pare riuscire a coinvolgere il grande pubblico in
maniera solo episodica e frammentaria. Il filo unitario e compatto della
storia sacra non ha lasciato eredi riconoscibili.
Nel mondo cattolico postconciliare vi
è stato uno sforzo senza precedenti per tornare alla Bibbia. Esso
non è stato privo di molti riscontri, tutti però coerentemente
interni. Per la maniera in cui è nata e si è sviluppata,
la tendenza di porre la Bibbia al centro della vita dei credenti non è
stata in grado di svolgere un ruolo rilevante nel dialogo verso l'esterno.
Abbeverandosi alle fonti della Scrittura il credente poteva trovare dei
motivi che lo spingevano a dialogare con chiunque, la Bibbia però
non era posta al centro di quel confronto. Negli anni dell'immediato dopo
concilio con i non credenti si parlava d'altro, soprattutto del comune
impegno a favore dell'uomo. Non ci si poteva confrontare positivamente
con i marxisti proponendo loro di leggere la Bibbia, il libro della fede
con cui si era in proprio ancora poco familiari. A tracciare le vie del
dialogo era la Gaudium et spes (la costituzione conciliare sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo) non la Dei Verbum (la costituzione
sulla rivelazione). Questa appare una delle ragioni per le quali la riscoperta
cattolica della Bibbia non ha lasciato tracce significative nella cultura
italiana presa nel suo insieme. Il ritorno alla Scrittura rimase, in sostanza,
un fenomeno interno.
La rinnovata vicinanza alle pagine dell'Antico Testamento, proposta senza
poter più contare sulla salda impalcatura della storia sacra e
senza che si fosse nelle condizioni di riproporre alla lettera le antiche
letture patristiche, suscitò nei fedeli non poco sconcerto. Per
ridurre questo stato d'animo ebbe allora fortuna l'ermeneutica della cosiddetta
'pedagogia divina'. Si trattava di una prospettiva incentrata sulla lenta
preparazione del proprio popolo voluta da Dio al fine di orientarlo alla
venuta di Gesù Cristo. L'approccio in realtà non era altro
che una specie di forma aggiornata ed evolutiva della storia sacra. Esso
era però dotato di ricadute pastorali troppo mediate per essere
davvero incisivo. Non era facile convincere i fedeli dell'importanza decisiva
di occuparsi di 'antefatti'. L'ermeneutica patristica coglieva Cristo
in tutte le Scritture, in questa luce l'Antico Testamento poteva perciò
essere direttamente presentato ai fedeli come un insieme di libri cristiani.
Prospettare quelle pagine come semplice testimonianza 'pedagogica'
incideva molto meno e spiega di per sé anche lo scarso peso pastorale
assunto in genere dalla prima lettura della messa domenicale.
Nella Chiesa cattolica italiana la riscoperta della Scrittura è
stata saldamente legata al Concilio. È stato il Vaticano II a indurre
molti vescovi o parroci a proporre ai loro fedeli la necessità
di leggere la Bibbia. Si trattava di un'operazione legittimamente retta
più dal senso dell'obbedienza alla Chiesa che dalla forza propria
delle Scritture. Questa connessione fu talmente salda da legare a filo
doppio la Bibbia all'eredità conciliare. Gli attacchi mossi a quest'ultima
hanno perciò avuto ricadute dirette anche sul ruolo assegnato alla
Scrittura nella vita della Chiesa. In campo liturgico e pastorale lo slancio
di porre al centro la Parola di Dio si è perciò affievolito
quando da settori ecclesiali sempre più vasti si è cercato
di ridimensionare l'influsso avuto dal rinnovamento conciliare. Le difficoltà
di mantenere ben accesa la fiamma del Vaticano II si sono perciò
ripercosse direttamente sulla Bibbia.
Questo appannamento non è dovuto solo alla presenza di spinte conservatrici.
Il Concilio si è chiuso ormai da quarant'anni. Per i giovani di
oggi la riscoperta della Bibbia è qualcosa che ha riguardato i
loro padri, se non addirittura i loro nonni. Non a caso le associazioni
bibliche o in ogni caso sensibili alla Bibbia (come quelle ecumeniche)
sono ancora rette dalla generazione immediatamente postconciliare. Per
i più giovani accostarsi alla Bibbia non rappresenta più
l'esaltante possibilità di avvicinarsi a un terreno a lungo precluso.
Quel libro lo hanno sempre visto nelle loro case e lo hanno associato,
di fatto, più alla generazione dei loro genitori ed educatori che
alla propria. Si aggiunga che, per ragioni connesse a un clima culturale
generale, le generazioni più giovani danno molta più rilevanza
all'esperienza diretta che alla mediazione culturale. Non sorprende quindi
constatare che, da anni, le scuole di preghiera aggreghino più facilmente
i giovani di quanto non faccia la proposta di studiare la Bibbia e che
non di rado anche quest'ultima sia avvicinata solo in modo spiritual-esperienziale.
Nel mondo culturale italiano assunto in generale è ben riconoscibile
il tramonto del primato un tempo attribuito alla storia sacra. Questo
declino irreversibile condiziona però ancora l'impianto attuale.
L'affermazione trova conforto, sia pure in modo indiretto, in ciascuno
dei tre ambiti in cui, in epoca recente, si è più saldamente
radicato il riferimento biblico. Per quanto la distinzione rischi di essere
troppo rigida (anche per l'esistenza di inevitabili sovrapposizioni) si
può sostenere con una certa pertinenza che i filoni principali
in cui la cultura italiana ha declinato il proprio interesse per la Bibbia
sono soprattutto tre: l'estetico, il filosofico-sapienziale e il filosofico-politico.
Ovviamente si tratta di un'indicazione provvisoria che non pretende di
essere esauriente.
Fra i tre ambiti il primo è di gran lunga il prevalente. In esso
la parola 'estetica' va assunto in senso largo. Lo si può definire
grosso modo in questi termini: nella Bibbia c'è la dimensione del
bello e la Bibbia ha influenzato il bello. La bellezza pittorica, scultorea,
architettonica, musicale, poetica, letteraria dell'Occidente ha in se
stessa profondi lasciti biblici. Mare vastissimo in cui si potrebbe navigare
per più vite se ci fosse concesso averle. Tuttavia risulta evidente
che all'interno di questo universo il primato spetta alla forma letteraria
e poetica, l'unica tra le espressioni artistiche che trova un riscontro
preciso anche all'interno della Scrittura e non solo nell'ambito della
'storia degli effetti' (Wirkungsgeschichte). La Bibbia ha molto
a che fare con l'architettura, la pittura, la scultura e così via,
tuttavia essa si presenta in se stessa come un testo letterario. Solo
in quest'ultimo ambito può quindi scoccare la scintilla di una
affinità profonda. Questa constatazione spiega il duplice movimento
lungo il quale si registra da un lato un grande interesse di molti letterati
per la Bibbia e dall'altro un'attenzione, forse ancor più viva,
dei biblisti per la letteratura vista, oltre che come base di infinite
ri-scritture bibliche, anche come terreno da cui estrarre approcci narrativo-letterari
capaci di fornire un contributo prezioso per comprendere la stessa Scrittura.
Colta in quest'ottica la vastissima opera di Gianfranco Ravasi rappresenta
un punto di riferimento generale per tutta la cultura italiana degli ultimi
decenni e non solo per la ricerca biblica. Difficile infatti individuare
un canale che più di questo abbia portato acque copiose all'interesse
culturale per la Bibbia.
L'approccio estetico alla Bibbia è tendenzialmente selettivo: non
tutti i libri rispondono allo stesso modo a tali esigenze: in quest'ambito
i testi poetici e narrativi avranno, per forza, un ruolo privilegiato
a scapito degli altri. Le singole pagine avranno sempre la meglio sull'itinerario.
Quando l'interesse estetico diviene predominante, se non esclusivo, è
il genere letterario a diventare la grande via per legittimare l'apertura
alla Bibbia. A coinvolgere i lettori è il respiro poetico-letterario
della Scrittura e non la Bibbia in quanto tale. Con le varianti del caso,
le regole di fondo sono ancora quelle indicate a suo tempo da Francesco
De Sanctis: "Mi fermai molto sulla lirica ebraica, esaminando
specie il libro di Giobbe, il canto di Mosè dopo il passaggio del
Mar Rosso, i salmi di David, la cantica di Salomone, i canti dei profeti,
specialmente Isaia. Avevo sete di cose nuove e quello studio era per me
novissimo. Non avevo mai letto la Bibbia, e i giovani neppure
Lessi
non so dove meraviglie di quel libro, come documento di alta eloquenza,
e tirato dall'insegnamento delle mie lezioni, gittai un occhio sopra il
libro di Giobbe. Rimasi atterrito. non trovavo nella mia erudizione classica
nulla di paragonabile a quella grandezza". Coerentemente alla
fine di queste considerazioni De Sanctis avanza l'unica prospettiva consona
al suo approccio: approntare un'antologia biblica.
Di recente si sono registrati alcuni tentativi volti ad attribuire un'arcata
maggiore all'interesse narrativo. Jack Miles, per esempio, nel suo libro
Dio, una biografia ha ripercorso da un capo all'altro l'intera
Bibbia ebraica. Ciò però ha comportato, di necessità,
rendere Dio stesso solo un personaggio: l'approccio narrativo rende simile
a sé il proprio oggetto. Si tratta comunque di eccezioni. In genere
infatti si opta per una parte e non per il tutto. In Italia da questo
punto di vista Guido Ceronetti resta figura di riferimento. Ci si occupa
di un libro o di un altro scegliendo qua e là quello che risulta
più affine e appare più fine. Al seguito di Ceronetti sono
comparsi sulla scena una serie di epigoni sedotti dal fascino dell'ebraico,
lingua che può venir tradotta solo a patto di mantenerne l'arcaicità
primordiale (si vedano in proposito le improbabili versioni di Erri De
Luca).
Va da sé che il tipo di approccio
estetico a cui si è prevalentemente alluso non ha più nulla
da spartire con la storia sacra. Meno immediato, ma non per questo meno
pertinente, è comprendere perché quel riferimento di fondo
non giochi un ruolo significativo neppure all'interno di un approccio
attualmente in fase di grande sviluppo: la catechesi attraverso l'arte.
La volontà di esporre contenuti della fede a partire da grandi
opere d'arte non può prescindere dal valore estetico e dalla qualità
della realizzazione artistica. Inoltre, dipendendo dalle opere che illustra,
la catechesi assume per forza di cose un carattere discontinuo. In effetti
anch'essa non sarebbe mai nata senza la crisi della storia sacra, la quale,
a motivo della sua sistematicità unilaterale, per essere efficace
non aveva bisogno di ricorrere a vere e proprie opere d'arte; al più,
per ragioni pedagogiche, faceva ricorso a semplici illustrazioni (basti
pensare ai filmini proiettati durante la 'dottrina'). Al contrario, partire
dall'arte, che è una vera e propria forma di ermeneutica biblica
e non una semplice attività illustrativa, comporta tener conto,
se non si vuole cadere in inaccettabili strumentalizzazioni, degli stili,
dell'epoca, del contesto, delle tecniche, della committenza e così
via. La decifrazione dell'opera implica una complessa modalità
di rimandi che non si attaglia alla linearità della storia sacra.
Inoltre, dovendosi riferire a opere d'arte specifiche, la catechesi può
assumere solo un carattere parziale o tematico.
In anni recenti il confronto tra credenti
e non credenti avviene sempre più di frequente anche con espliciti
riferimenti alla Scrittura. Si è dischiuso in tal modo l'ambito
che potremmo chiamare filosofico-sapienziale. Tale qualificazione si giustifica
anche per la scelta dei testi di riferimento classici in quest'ambito.
Si trattava di libri appartenenti per lo più al genere sapienziale
che per il loro carattere, sostanzialmente astorico, erano presi in scarsa
considerazione all'interno della storia sacra. Non a caso, coerentemente
al loro impianto, i letterati, quando si misurano con la profezia, prediligono
il 'favolistico' Giona a voci più storicamente determinate. Tuttavia
il grande interesse per libri come Giobbe o il Cantico dei cantici non
si motiva solo in ragione della loro eccellenza letteraria; ed è
ancor meno plausibile che l'attrazione esercitata da un testo come il
Qohelet dipenda da una sua presunta eccellenza artistica..
In un'epoca in cui le robuste filosofie della storia appaiono sempre meno
solide, anche i filosofi si rivolgono con maggiore interesse alla sfera
sapienziale ed esistenziale; per indagare il tema del dolore il libro
di Giobbe diviene assai più eloquente di quello di Geremia. L'universalità
del pensiero soffre della particolarità della storia se non riesce
più a inserirla come momento di un quadro più vasto. Anche
per questo l'astorico Giobbe ("C'era nella terra di Uz, un uomo
chiamato Giobbe" Gb 1,1) è più facilmente paragonabile
a una tragedia greca (per esempio il Filottete) di quanto non lo
sia Geremia ("A lui fu rivolta la parola del Signore al tempo
di Giosia figlio di Amon, re di Giuda, l'anno decimo terzo del suo regno"
Ger 1,2). Nell'orizzonte 'postmoderno' le ragioni della marginalità
assegnata ai sapienziali all'interno della storia sacra diventano i motivi
della loro attuale centralità. In essi le categorie 'filosofiche'
relative al dolore, all'amore, alla verità e al venir meno, alla
vita e alla gioia sono trattate in modo sapienziale e quindi perennemente
riproponibile su un piano esistenziale.
Il filone filosofico-politico sembra portare verso altri lidi. In esso
la temporalità dovrebbe svolgere un ruolo primario. In parte è
così. Tuttavia è necessario compiere alcune precisazioni.
Innanzitutto la piega assunta da questo tipo di interesse presuppone anch'essa
la crisi sia della storia sacra sia delle sue versioni più o meno
accentuatamente secolarizzate che costruivano un 'grande racconto' capace
di collegare l'inizio e la fine dando esito e continuità alla storia.
Non a caso oggi l'interesse politico è legato in maniera fortissima
non più all'Esodo, come fu tipico dell'epoca in cui dominava la
teologia della liberazione, ma alle lettere di Paolo e alla sua concezione
di tempo messianico. Per esemplificare il discorso attraverso un paio
di titoli si può affermare che La teologia politica di San Paolo
di Jacob Taubes abbia sostituito Esodo e rivoluzione di Michael
Walzer. Questo Paolo riconsegnato al dibattito filosofico attraverso la
mediazione di un rabbino presuppone la discontinuità temporale
sia della storia sacra sia della sua versione filosofica secolarizzata
di stampo storicistico. Questo interesse 'messianico' è legato
per lo più a qualche frammento neotestamentario, soprattutto paolino,
o a pensatori ebrei indirettamente biblici come, Walter Benjamin, Gershom
Scholem o, più di recente, Moshe Idel. Si tratta comunque di un
settore quantitativamente limitato, presentato in questa sede principalmente
per sottolineare che anche quando la ricerca si incentra sul tempo essa
non si muove più sull'arco lungo della storia sacra.
Nella cultura italiana la crescita di attenzione per la Bibbia deve non
poco a una figura singolare che ha posto tutta la sua vita e la sua ricerca
all'insegna del primato attribuito alla Scrittura: Sergio Quinzio. L'interesse
per il suo pensiero non declina; anzi, dopo la morte, sembra addirittura
incrementarsi. Tuttavia è importante rimarcare un particolare sulle
prime incongruo. Sembra infatti di dover registrare una specie di divaricazione
tra l'appassionata discussione riservata a varie opere e tesi di Quinzio
e il quasi oblio in cui è caduto quello che giudicava il suo testo
maggiore: Un commento alla Bibbia. L'impresa di commentare tutti
i libri della Bibbia dal primo all'ultimo ha conquistato meno menti e
cuori di altri scritti; forse ciò è avvenuto proprio a motivo
della continuità canonica assunta da Quinzio non come semplice
arco narrativo ma anche come quadro di riferimento costitutivo della storia
di Dio. La dichiarata matrice cattolica di Quinzio appare in modo netto
in un'impostazione generale che problematizza o addirittura 'crocifigge'
la storia sacra a cui resta però disperatamente fedele. Quinzio
rovescia i termini di un impianto fatidicamente sicuro di sé, ma
non esce da quell'ambito. Questo grande sforzo però ha avuto ripercussioni
meno estese di altre sue opere. Il 'libro della sua vita' è il meno
citato, forse proprio perché il più legato, sia pure sub
contraria specie, al tramontato orizzonte della storia sacra.
Sembra infine emergere un altro centro
di riflessione autorevolmente prospettato dal card. Carlo Maria Martini.
Esso propone di scorgere nella Bibbia il libro per il futuro dell'Europa,
vale a dire un testo che, in virtù del suo passato e del suo presente,
è ancora in grado di orientare a vivere in modo propositivo entro
società sempre più multiculturali e multireligiose. In questo
contesto la Scrittura appare in grado di raccogliere le grandi potenzialità
di una memoria dell'Occidente capace di aiutare a decifrare tempi e momenti
nel presente e nel futuro. Perché questa prospettiva divenga realmente
efficace occorre che la Bibbia sia colta all'insegna del proprio pluralismo
presente nell'intimo snodo ebraico-cristiano che la costituisce. Questo
esito non può aver luogo né sotto un presunto ripristino
della storia sacra (nel quale la Bibbia cristiana congloba totalmente
in se stessa la testimonianza ebraica), né proponendo l'esistenza
di due paralleli 'sistemi religiosi' in cui la Bibbia ebraica e quella
cristiana rappresentano due libri destinati a ignorarsi a vicenda. La
Bibbia è il libro dell'Occidente solo perché giudaico-cristiano.
Solo in questa duplice valenza diviene intelligibile il dramma della storia
europea e individuabile la via per giungere a una positiva convivenza
multireligiosa e multiculturale. Per conseguire una rinnovata centralità
della Bibbia che non sia solo estetica, sapienziale o frammentaria, essa
deve avere voce in capitolo sul piano civile in un'Europa che ormai moltiplica
al proprio interno le presenze provenienti da un mondo fattosi globale.
Piero Stefani
Conversazione tenuta Roma al convegno dei soci aggregati
ABI il 6 novembre 2004
e pubblicata sul Regno-annale
2004, pp. 73-81.
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