APPROFONDIMENTI CULTURALI - XXXII           -           ANNO XVIII, N. 1

Il mistero della nascita e della vita nell'ebraismo

   Nella  messa cattolica vi è una benedizione dotata di una trasparente  matrice ebraica; essa  benedice Dio per il pane  frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Qui si riprende la benedizione ebraica che afferma: «Benedetto sei tu Signore, Dio del mondo che fa uscire il pane della terra». Si usa proprio questa espressione «fa uscire»  riferendola al pane, cioè al cibo, non quindi alla spiga, ma al prodotto già commestibile. Perché si dice così? Perché si sta ringraziando. Quando si ringrazia Dio, si pone come tra parentesi il lavoro umano che pure è valutato moltissimo nell’ebraismo, però, in questa circostanza si  fa come un passo indietro e si mette tra parentesi sé stessi.

   Ora cosa c’entrano tali allusioni con il discorso che qui dobbiamo dipanare? Tale accostamento può tornare alla mente quando si leggono alcuni versetti del Salmo 139: «Sei tu che hai acquistato (radice qn’) i miei reni, mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti rendo grazie perché sono stato compiuto come un prodigio (radice pl’), meravigliose sono le tue opere» (cfr. Sal 139,13-14; Gb 10,8 ; Is 44,24). Frasi di questo tipo - il cui contenuto si può riassumere dicendo: «Tu sei l’origine della mia vita» - vanno intese sulla scorta di quanto si diceva prima: l’uomo e la donna  e il loro reciproco incontro importano moltissimo, ma, nel momento in cui si sta rendendo grazie, si dà la preminenza solo a Colui che  è all’origine della vita di tutti e di ciascuno. Che rapporto dunque c’è tra Colui che «in principio» ha dato la vita al mondo e coloro che fanno sì che questa vita si prolunghi sulla terra? Nell’ebraismo questa connessione tra chi è posto in senso assoluto all’origine della vita e chi è chiamato a collaborare  perché essa continui, può essere letta lungo due filoni principali: quello dell’haggadà e quello della halakhà. Haggadà vuol dire racconto; è quindi una forma di commento biblico che si colloca nell’area della narrazione. L’halakhà è la via, l’insieme delle regole che presiedono alla prassi. Ora è molto facile - specie se si parla di ebraismo fuori del mondo ebraico e, in particolar modo, se chi parla è un non ebreo - ritenere che l’haggadà sia la cosa più facilmente comunicabile e, quindi, più rilevante mentre l’halakhà costituisca un mondo ostico e, quindi, poco significativo. Ma ragionando così ci si preclude in partenza ogni autentica comprensione dell’ebraismo.

Cominciamo comunque dalla via, almeno all’apparenza, più facile: quella della narrazione. Non si racconteranno avvenimenti ma si commenteranno versetti biblici riproponendo suggestioni, spunti e commenti tradizionali. Il punto di riferimento principale per questo legame tra l’origine assoluta  della vita in Dio e il modo in cui la vita si prolunga sulla terra grazie alla cooperazione umana del maschio e della femmina, è il ventisettesimo  versetto del primo capitolo della Genesi, in cui si afferma: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». Nella tradizione occidentale cristiana, quando si poneva il problema di dove situare l’immagine e la somiglianza di Dio, la risposta prevalente era: nella sua interiorità. Riferendosi a questo passo Agostino, non a caso, evoca l’uomo interiore, dove è la ratio, l’intellectus, la ragione, la mente. L’immagine di Dio è dunque nello spirito.

Invece, fin dall’antichità, nei grandi commentari ebraici questo punto è interpretato nel modo seguente: l’immagine e la somiglianza di Dio si trovano nella relazione tra maschio e femmina e nella connessione che tale rapporto ha con Dio. Prendo due passi dal grande commento alla Genesi (Bereshit Rabbà); al versetto «a nostra immagine e a nostra somiglianza» (Gen 1,26) si dice: «né l’uomo senza la donna, né la donna senza l’uomo, né tutti e due senza la Shekhinà», cioè senza la presenza del Signore. Questa frase viene ripresa esattamente con le stesse parole anche nel commento di Genesi 4,1;  situata, sembrerebbe,  dopo il peccato, dopo la cacciata dal paradiso quando comincia la storia così come noi la conosciamo. Gen 4,1 dice che Adamo (è la prima volta che il termine Adamo appare in senso stretto   come nome proprio; nei primi tre capitoli vuol dire genericamente uomo) conobbe Eva, cioè ebbe dei rapporti sessuali con lei ed ella  generò Caino e disse: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (stando all’ebraico si può anche optare per un’altra resa: «Ho acquistato un uomo con il Signore»). Qui vi è un gioco di parole basato sulla  radice qn’ che compare sia nel nome Caino sia nel verbo «acquistare». Il senso è: io assieme ad Adamo ho acquistato un’altra creatura umana dal Signore (o con il Signore);  siamo di fronte alla prima cooperazione a tre presente nella storia.

Come è noto nella Genesi vi sono due distinti racconti della creazione posti l’uno di seguito all’altro. Nel primo vengono creati le cose, gli animali e infine, come coronamento del tutto, l’uomo visto, fin dall’origine, come maschio e femmina. Nel secondo, prima è animato l’uomo, poi vengono gli animali, infine compare Eva. Nella esegesi ebraica si cerca spesso di tessere assieme queste due fonti all’interno di un unico discorso. Nel commento al passo che abbiamo letto - Gen 4,1 -  si afferma che dapprima Adamo fu creato dalla terra ed Eva da Adamo e poi si aggiunge: da qui in poi a «nostra immagine e somiglianza: né l’uomo senza donna, né donna senza uomo, e neppure ambedue senza la Shekhinà». Il secondo racconto della creazione non parla dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio; allora ci si chiede quando la creatura umana comincia a essere a immagine e somiglianza di Dio. E si risponde: soltanto quando appare Eva.

Nel secondo racconto della creazione, ripetiamolo, c’è questa successione: maschio, animali, Eva. Tale scansione è sempre stata intesa in questo modo: dapprima c’è l’uomo che ha esperienza della propria solitudine e  va alla ricerca di un compagno simile a lui; allora Dio dice: «Facciamo gli animali»,  a cui  l’uomo dà i nomi (cfr. Gen 2,18-19 ). La lettera del testo biblico finisce qui. Ma già nel commento del grande Rashi si evidenzia che gli animali si presentavano davanti a lui a coppie, secondo la loro specie. Di fronte all’uomo fin dal principio sfilavano dunque coppie di animali, maschi e femmine. È dinanzi a questa vista che l’uomo avverte ancora più acutamente la propria solitudine e si accorge di quanto gli manca: lui non è una coppia. Questa visione biblica è straordinaria, specie nel mondo antico. Ponendo all’origine l’esperienza della solitudine questa narrazione biblica afferma che l’unione, e quindi anche l’idea dell’unità del maschio e della femmina, non è l’origine perduta (come nella mitica immagine dell’androgino), ma una meta da conseguire. Tante civiltà hanno avuto l’idea che all’inizio ci fossero l’uomo e la donna uniti. Si trattava - come dice Platone nel Simposio - di un essere troppo potente, per questo fu diviso in due, cosicché il maschio e la femmina ora vanno alla ricerca l’uno dell’altra aspirando a riconquistare l’unità perduta. Ricercano la metà che manca loro. Nella Bibbia, almeno all’apparenza, si scorge un inizio «maschilista»: l’uomo è prima e la donna proviene da lui. Il discorso però ha anche un altro versante: il maschio si completa non quando è se stesso, ma solo quando una parte di lui è fatta «altro». L’unità - e quindi l’essere a immagine di Dio -  è un punto di arrivo dopo l’iniziale esperienza della solitudine. Oltre che dal desiderio umano di trovare una compagna, l’idea che vi sia una carenza nel creato viene introdotta dall’espressione di Dio che dice: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18); frase che rappresenta l’opposto di quella che nella prima narrazione sottolineava la comparsa del maschio e della femmina «ed ecco era molto buono» (Gen 1,31). Nel  secondo racconto della creazione a Dio non tutto riesce bene fin dall’inizio; occorre un ulteriore completamento.

Torniamo a Genesi 4,1: «Adamo conobbe la sua donna, Eva». Secondo la visione corrente, si unì a lei dopo la cacciata dal giardino; vale a dire l’atto sessuale avvenne all’inizio della storia umana come ora la conosciamo. Questa interpretazione corre però il rischio di cadere in una stridente contraddizione: se teniamo conto che nella capacità di dare la vita propria dell’unione del maschio con la femmina c’è la presenza dell’immagine di Dio e se si afferma che questa  unione ha luogo solo dopo la cacciata, parrebbe che essa non debba rientrare nell’originaria volontà di Dio. Per questo la esegesi ebraica tende a sostenere che non è vero che l’atto sessuale e la generazione ebbero luogo fuori dall’Eden: avvennero entrambi prima del peccato e della cacciata. Il concepimento e la nascita di Caino e Abele sono collocati nel giardino (cfr. Rashi a Gen 4,1). Ci sono anche altri passi del Midrash secondo cui tutto avvenne nello spazio di un sol giorno: l’uomo fu creato, concepì e peccò. Questa visione vuole evidentemente porre in luce una forte correlazione tra l’origine della vita in Dio e la capacità dell’uomo di dare la vita: nello stesso giorno fu creato e concepì. L’idea di continuità ovviamente non è da intendersi in senso strettamente cronologico. Con tutto ciò si arriva appunto all’affermazione - invero non legata direttamente a  Gen 4,1 - secondo cui tre sono i fattori che cooperano alla formazione dell’essere umano: il Santo   benedetto Egli sia, la madre e il padre (cfr. Talmud babilonese, Niddà, 31a). Se si proseguisse a leggere questo passo talmudico ci si imbatterebbe anche in specificazioni piuttosto fastidiose, quanto meno per la nostra mentalità attuale. In esso compare infatti un certo eccesso di biologismo maschilista, dalla madre vengono le parti del corpo più basse, mentre dal padre  vengono le parti più nobili, ad esempio lo splendore del volto. In questa ripartizione dei compiti un ruolo spetta naturalmente anche a Dio che dà l’anima, e così via. Tuttavia, al di là di questi aspetti meno convincenti, resta il senso più alto della frase: la vita umana si prolunga e si moltiplica solo con l’intervento di tre protagonisti, l’uomo, la donna e Dio.

Secondo il Midrash, nel corso di un dibattito con un rabbi, un gentile chiese provocatoriamente: «E cosa fa il vostro Dio dopo aver creato il mondo in sei giorni?». «Unisce coppie» rispose il maestro; «Ma lo so fare anch’io» replicò il gentile; «Prova». I risultati furono ovviamente catastrofici (cfr. Bereshit Rabbà 68,4). Nell’originale il passo si dilunga molto con varie esemplificazioni di come il padrone  assortì malamente le coppie dei suoi servi e serve; ma non è necessario inoltrarsi in esemplificazioni di gusto non eccelso, per comprendere che il senso più autentico di questo passo sia di presentare una versione popolareggiante della triplice paternità e maternità.

Per avanzare nel nostro discorso è particolarmente utile rivolgersi ai primi versetti del quinto capitolo della Genesi; si tratta di in un passo cruciale per comprendere davvero l’inizio della nostra storia: «Questo è il libro delle generazioni di Adamo (’Adam). Quando Dio creò l’uomo (’adam), lo fece a somiglianza di Dio, maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomo (’adam) quando furono creati. Adamo aveva centotrent’anni quando generò a sua immagine e somiglianza un figlio e lo chiamò Set» (Gen 5,1-3). Nel passo della Genesi appena citato vi è un continuo trapasso tra quanto potremmo chiamare nome proprio «Adamo» e quel che si può definire «nome comune» uomo (’adam). In questo alternanza è implicitamente affermato il costituirsi dell’uomo come essere relazionale nel suo darsi come maschio e femmina e proprio per questo contrassegnato dalla immagine e somiglianza di Dio.

Il concepimento e la nascita di Set avviene sicuramente dopo la cacciata; anzi, non solo dopo il giardino, ma anche dopo il primo fratricidio e quindi entro una storia effettivamente paragonabile alla nostra. Qui si dice che maschio e femmina li creò dando loro il nome di uomo e che li creò a sua immagine; si aggiunge poi che Adamo creò Set a sua immagine e somiglianza. Questo passo non va inteso semplicemente nel senso che Set è a immagine e somiglianza di Adamo, ma che egli è costituito a immagine e somiglianza di Dio. Alla coppia umana è concesso di prolungare nel tempo la potenza del principio.

Ci sono molti commenti a questo passo; alcuni dei quali profondamente etici nell’accezione più alta del termine. Un maestro dell’inizio del II sec. e.v. Ben Azzaj, disse che il versetto «Questo è il libro delle generazioni di Adamo» è un grande principio della Torà. Ma un altro maestro, ancora più importante, Rabbi ‘Aqiva, aggiunge che «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18) è una regola ancora più grande (cfr. Bereshit Rabbà). Quest’ultimo versetto è senz’altro un comandamento. Evocarlo in questo contesto comporta affermare perciò, almeno in modo indiretto, che anche il verso «Questo è il libro delle generazioni di Adamo» va inteso come una specie di precetto. Per quale ragione ? Perché rappresenta il principio dell’uguaglianza originaria tra gli uomini e la base dell’impegno dell’uomo nei confronti del proprio simile. L’argomento proposto da Rabbi ‘Aqiva prosegue con quella che sembra una specie di contraddizione, essa invece costituisce l’apice dell’intero discorso: «“Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Questa è una grande regola della Torà. Che tu non dica: dal momento in cui sono stato disprezzato, sarà disprezzato il mio compagno con me. Se fai ciò sappi chi tu disprezzi: a immagine di Dio lo fece» (ivi). L’elemento più profondo è che qui nella uguaglianza viene inserita un’asimmetria. Se si è tutti uguali appare ragionevole assumere un modo di agire simmetrico; invece l’appello all’amore del prossimo sembra dire: l’immagine di Dio, che è nell’uomo, fa sì che la tua responsabilità verso l’altro è più forte di quella richiesta dalla simmetria. Se ci si conforma a quest’ultima, ci si affida a una prospettiva importante - «Questo è il libro delle generazioni di Adamo», l’umanità ha un’origine unitaria  e ciò esclude   ogni tipo di razzismo - ma non ancora sufficiente. L’umanità è uguale, ma c’è anche la voce imperativa che viene dall’Altro che è ancor più importante per stabilire dove sta l’immagine di Dio. Qui ne va di mezzo quanto, con un termine né biblico né ebraico, si potrebbe chiamare la trascendenza. Nel «Libro delle generazioni di Adamo» oltre all’idea dell’uguaglianza tra gli uomini, viene così espressa anche quella che si è fatti a immagine e somiglianza di Dio ed essa esprime qualcosa di più della semplice uguaglianza fondata sulla comune discendenza umana; infatti  a generare sono sempre in tre: l’uomo, la donna e Dio. Questa triplicità   diviene principio di responsabilità all’interno dei rapporti interumani.

Il riferimento ai comandamenti ci avvia verso il mondo della halakhà. Essa fa ricorso a linguaggi molto diversi per affermare in fondo prospettive assai simili a quelle fin qui viste. Cosa significa per la halakhà, cioè per la norma e per la prassi, che ci sia questa triplice presenza del maschio, della femmina e di Dio come asse portante della generazione umana? Un maestro della halakhà risponderebbe che questa triplice collaborazione avviene prima di tutto perché la scelta di generare è espressione di obbedienza a  un comando di Dio, in quella circostanza si sta cioè mettendo in pratica la volontà del Signore. Dio si fa presente nei precetti della Torà in cui rientra pure il «crescete e moltiplicatevi» (cfr. Gen 1,28). Anche questo detto va inteso infatti come un comandamento. Nella classificazione dei precetti (autorevole anche se non strettamente normativa) proposta in epoca medievale da Mosè Maimonide  (si tratta di una specie di silloge di tutta la tradizione precedente) il «crescete e moltiplicatevi» è considerato il 212° comandamento affermativo. Generare è quindi esecuzione della volontà di Dio. Chi per propria scelta non adempie questo precetto viola la Torà. La tradizione non reputa la castità un valore. Per chi vale questo obbligo? L’halakhà risponde: per  l’uomo. L’obbligo di procreare è del maschio, quindi se egli, giunto a una certa età, non si sposa è colpevole; la donna deve solo aspettare. Nel mondo dell’halakhà compare uno sbilanciamento culturale per noi non più accettabile. Qui non c’è mancanza di simmetria; vi è una vera e propria disuguaglianza. «L’uomo - ecco le parole di Maimonide - ha il precetto della prolificazione e della moltiplicazione, non la donna». Fino a quando le religioni intenderanno questa collaborazione tra Dio e le creature umane  (in qualunque campo si esplichi)  subordinando la donna all’uomo in esse resteranno residui di infedeltà.

Altro tema halakico importante: l’obbedienza a Dio per quanto riguarda la vita e la nascita si ha, oltre che nella messa in pratica del comandamento di crescere e moltiplicarsi,  anche nel rispetto delle regole rituali relative alla sessualità. L’ halakhà, cioè la normativa, in questo caso anche esplicitamente biblica, annovera tutta una serie di regole di purità legate alla sessualità. Norme  molto importanti anche se osservate da un punto di vista antropologico e in ogni caso fondamentali per varie civiltà antiche, ma rilevanti anche all’interno delle riflessioni che stiamo qui conducendo. La purità infatti riguarda il corpo; non l’interiorità o la ratio agostiniana. L’intelletto, a differenza del corpo, non ha a che fare con la purità. In questo ambito è dunque in gioco la santificazione della corporeità. Tale dimensione appare del tutto incomprensibile per chi - in base a un fraintendimento assai comune - intende impuro come equivalente di cattivo e puro come sinonimo di buono.   Così facendo si tenta di leggere la ritualità alla luce di una chiave etica in questo caso inadeguata. La ritualità non  si regge affatto su parametri morali; essa dipende da fattori completamente diversi. Sostenere che tutto quanto riguarda l’origine della vita - dall’emissione del seme al sangue mestruale e così via - e che tutto quel che riguarda la fine della vita - da certi tipi di malattie alla morte  - hanno a che fare con l’impurità significa affermare che in questi ambiti si toccano i punti in cui la vita umana entra in relazione in modo più stretto con la propria origine e  la propria   fine. Qui la vita cioè si incontra con quel che è di Dio. L’impurità non è il negativo, è quello che eccede la dimensione umana. L’uomo e la donna sono in grado di dare la vita solo in virtù di qualcosa che li precede. Le regole di purità sono in un certo senso il modo halakico per dire che, all’origine della vita, c’è la triplice paternità e maternità dell’uomo, della donna e di Dio; oppure, sull’altro fronte, costituiscano la modalità per dichiarare che la morte  fa entrare in una dimensione  sottratta al controllo umano.

L’halakhà, anche relativa alla vita sessuale, ha a che fare con la regolamentazione, ma soprattutto con l’obbedienza. Essa significa instaurare la presenza di Dio attraverso l’obbedienza alla Torà. Le sue strutture culturali sono senza dubbio molto diverse da quelle presenti nel mondo contemporaneo; tuttavia, alla sua radice, l’halakhà  attesta, attraverso la via dell’obbedienza alla volontà di Dio,  la  presenza del Signore là dove si concepisce una creatura umana.

Si può concludere con un riferimento a un brano tratto da un Midrash; sembrerebbe quindi che si ritorni a una dimensione di tipo narrativo; ma il suo contesto, in realtà, continua a essere halakico. È citato da un grande intellettuale israeliano morto nel 1994, Jeshjahu Leibowitz, nel suo prezioso libro Lezioni sulle «Massime dei Padri» e su Maimonide (Giuntina, Firenze 1999). Per l’esattezza si tratta di un brano proveniente  dal Midrash Chazita dedicato al Cantico dei Cantici, libro qui inteso come un inno di amore dell’ebreo nei confronti della Torà. In un suo punto esso parla di: «colui che sposa una donna e “ha orrore di vedere se stesso sotto il baldacchino del matrimonio, nel giorno piacevole senza uguali in cui è felice con sua moglie”. Si avvicinò perché aveva bisogno, e lei gli disse: “Ho visto come una rosa rossa” (una goccia del sangue mestruale); si allontanò da lei, e rivolse il proprio viso da un lato mentre lei rivolse il proprio dall’altro. Quale è il motivo per cui non si è avvicinato a lei ? C’è forse fra loro un muro di ferro? Sono le parole della Torà, lievi come rose, in cui è detto “e alla tua donna nella sua impurità mestruale non ti avvicinerai” (che egli ha osservato). Per questo è detto: “Lo loda con le rose”». Non si può negare che esista il rischio di tramutare questa leggera siepe di rose nel ferrigno baluardo di un’osservanza cieca e impaurita; tuttavia  non è lecito scambiare questa degenerazione con l’unico modo in cui si può vivere  secondo la halakhà. È inevitabile notare che questa lettura del Cantico dei cantici, volta a esaltare l’obbedienza ai precetti, differisce molto dalle interpretazioni mistiche ebraiche e ancor più cristiane; ma sarebbe inescusabile assegnare  solo  queste ultime al polo della spiritualità e  relegare le prime all’aridità del  formalismo.

Le norme di purità relative alla sessualità, lungi dall’essere insegnamenti o regole igieniche, sono espressioni di una norma che può essere vissuta come una forma di obbedienza alla volontà di Dio e, quindi, come un modo per attestare la triplice paternità e maternità: vissuta nella sua autenticità l’obbedienza alla Torà è una via per  rendere effettiva la presenza di Dio quando l’uomo e la donna, incontrandosi, danno origine a un’altra vita su questa terra.

Piero Stefani

(conversazione tenuta presso le Suore di Sion di Milano l’11 novembre 1999, apparsa su Studi, Fatti, Ricerche [Sefer] n.92, ottobre-dicembre 2000, pp.3-6 )


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