I. ANTICHI (I - VI secoli)


C LEMENTE I (Roma, fine I secolo)

INEFFABILE È L'AMORE DI DIO

Colui che possiede l'amore cristiano, obbedisca ai comandamenti di Cristo. Chi potrà mai spiegare in che consiste il vincolo dell'amore di Dio? Chi sarà in grado di illustrare esaurientemente la sua bellezza e la sua intensità? Ineffabile è il vertice a cui ci eleva: l'amore ci unisce a Dio, l'amore copre il gran numero dei peccati (1Pt 4,8), tutto soffre l'amore, tutto sopporta; nulla di vile né di altezzoso è compatibile con l'amore. L'amore non suscita divisioni, l'amore

non si ribella, l'amore opera sempre con la massima concordia; è attraverso l'amore che tutti gli eletti di Dio son stati condotti alla perfezione e, quando non è presente l'amore, nulla al Signore è gradito. Egli ci ha tratto a sé con amore e Gesú Cristo Signor nostro, in virtú della carità che ebbe per noi, docile alla volontà di Dio, diede il suo sangue per il nostro sangue, la sua carne per la nostra carne, la sua anima per la nostra anima.

Considerate quanto sia grande e meraviglioso l'amore, o carissimi, e come sia impossibile spiegarlo esaurientemente. Chi è in grado di perseverare in esso, se non colui che Dio ha scelto? Preghiamo e supplichiamo, dunque, la sua misericordia, di poter vivere in questo amore, al sicuro da ogni umano condizionamento, in assoluta perfezione. Tutte le generazioni, da Adamo sino ad oggi, sono passate; chi, tuttavia, in virtú della grazia di Dio, abbia conseguito la perfezione della carità, ha ottenuto il posto riservato alle anime devote: noi lo vedremo, perciò, allorché apparirà il regno di Cristo. Sta, infatti, scritto: Entrate appena un poco nelle vostre stanze, finché si dilegui la mia collera ed il mio furore: io mi ricorderò, poi, del giorno buono e vi farò risorgere dalla tomba (Is 26,20; Ez 37,12).

Noi siamo beati, o carissimi, se ci manteniamo fedeli alle leggi di Dio, vivendo nella concordia e nell'amore: la carità, infatti, cancellerà, in questo modo, i nostri peccati. Sta, infatti, scritto: Beati coloro ai quali furono rimesse le iniquità, i cui peccati furono cancellati. Beato l'uomo al quale il Signore non imputò colpa e sulla cui bocca non v'è inganno (Sal 31,1‑2). Questa è la beatitudine che godono coloro che Dio ha eletto, per opera di Gesú Cristo nostro Signore, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

(Clemente di Roma, Lettera ai Corinti, 49-50, in La Teologia dei Padri II, Città Nuova Editrice, Roma 1974, pp. 47-48)


A GOSTINO D'IPPONA (Tagaste in Numidia 354 - Ippona 430)

L'AMORE È IL PIÚ ELETTO DONO DI DIO

Lo Spirito Santo Dio, che procede da Dio, quando vien dato all'uomo lo accende di amore per Dio e per il prossimo: egli stesso è l'amore. L'uomo infatti non ha donde amare Dio, se non da Dio. Per questo dice la Scrittura: Noi lo amiamo, perché egli per primo ci ha amati (1Gv 4, 19). E l'apostolo Paolo: L'amore di Dio si è effuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo e ci è stato elargito (Rm 5, 5).

Nessun dono di Dio è piú eletto di questo: è il solo che distingue tra i figli del regno eterno e i figli dell'eterna dannazione. Per mezzo dello Spirito Santo ci vengono elargiti anche altri doni, ma senza l'amore a nulla giovano. Se dunque lo Spirito Santo non dona a ciascuno tanto da renderlo amante di Dio e del prossimo, nessuno passa dalla sinistra alla destra. E lo Spirito Santo non vien detto precisamente «dono» se non per l'amore; amore, che se qualcuno non ha, quand'ancbe parlasse le lingue degli uomini e degli angeli, sarebbe un bronzo, un cembalo risuonante; e se avesse la profezia, conoscesse ogni mistero e ogni scienza; e se avesse tutta la fede tanto da trasportare i monti, non sarebbe nulla; e se distribuisse tutte le sue sostanze e se sacrificasse il suo corpo fino a bruciarlo, a nulla gli gioverebbe (1Cor 13, 1‑3).

Com'è grande dunque questo bene, senza cui gli altri beni, pur così grandi, non conducono nessuno alla vita eterna?

(Agostino, La Trinità, 15, 17, 31-32, in La Teologia dei Padri II, Città Nuova Editrice, Roma 1974, pp. 289-230)


G REGORIO MAGNO (Roma 540 - ivi 604)

CRISTO RACCONTA UNA PARABOLA DELLA MISERICORDIA

A COLORO CHE DISPREZZANO I PECCATORI.

Siccome si trattava di ammalati nello spirito che non sapevano di essere tali, perché si rendessero conto del loro stato il medico divino porge loro blandi rimedi, narrando una parabola della misericordia, per toccare nel loro cuore i segni della ferita. Dice infatti: chi di voi, padrone di cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto per darsi alla ricerca di quella smarrita? (Lc 15, 4). Ecco che la Verità, con gesto di grande misericordia, racconta una parabola che l'uomo potesse

riconoscere attuata in sé, pur essendo in modo speciale riferita al Creatore dell'uomo. Siccome si tratta di un numero che è simbolo di perfezione, il pastore della parabola aveva cento pecore, ad indicare il Creatore degli angeli e degli uomini. Una pecora però si smarrì, quando l'uomo peccando abbandonò i pascoli della vita. Il pastore abbandonò allora le novantanove nel deserto, come Cristo che lasciò in Cielo gli eccelsi cori degli angeli. Perché paragoniamo il cielo al deserto se non perché il deserto è un luogo abbandonato? L'uomo abbandonò il Cielo quando commise il peccato. Le novantanove pecore erano rimaste nel deserto, mentre il Signore sulla terra era in cerca di quella smarrita, perché il numero delle creature razionali, degli angeli cioè e degli uomini, create per vedere Dio, era diminuito essendosi l'uomo smarrito. Affinché si ricostituisse in Cielo il numero perfetto delle pecore, veniva cercato sulla terra l'uomo che si era smarrito. Infatti mentre questo evangelista parla del deserto, un altro nomina i monti per indicare i luoghi eccelsi, perché le pecore che non si erano smarrite, stavano nei luoghi eccelsi. E trovata la pecorella, la pone sulle spalle con gioia (Lc 15, 5). Cristo pose la pecorella sulle spalle quando, assumendo l'umana natura, portò il peso delle nostre colpe. Trovata la pecorella, tornò a casa, come il nostro Redentore, dopo aver riscattato l'uomo, salì al Cielo, ove trovò gli amici e i vicini, cioè i cori degli angeli che sono suoi amici perché custodiscono sempre e in modo immutabile la sua volontà. Sono anche suoi vicini perché godono sempre lo splendore della sua visione. È da notare che non dice: «congratulatevi con la pecora trovata», ma «con me», perché la sua felicità è la nostra vita, e quando noi siamo riscattati per il Cielo, rendiamo perfetta la sua gioia.

(Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli, UTET, Torino 1968, pp. 338-339)


M ASSIMO IL CONFESSORE (Costantinopoli 580 - Caucaso 662)

L'amore è quella giusta disposizione dell'anima per la quale essa preferisce la conoscenza di Dio a tutto ciò che esiste. Nessuno giunge a tale stato di amore, se ha degli attaccamenti per le creature (I,1).

Quando, spinta dall'amore, la mente vola a Dio, non è più consapevole né di se stessa, né di altra creatura esistente. Illuminata dalla infinita luce divina, è insensibile a tutto ciò che appartiene al mondo creato, ed è come la pupilla che si accende nella luce del sole (I,3).

A ciò che si ama ci si attacca senza riserve, trascurando ogni ostacolo per la paura di esserne privati. Chi ama Dio si applica all'orazione pura e qualsiasi passione gli si frapponga come ostacolo egli la rigetta (II,7).

È scritto, Dio è il sole della giustizia (Ml 4,12) che sparge i raggi della sua bontà su tutti, in egual misura. Ma l'anima, a seconda delle sue disposizioni, è come la cera, se ama Dio, o come fango, se ama la materia. Come è nella natura del fango di essere prosciugato dal sole, e in quella della cera di esserne ammorbidita, così l'anima, attaccata alla materia e al mondo, se, nel ricevere le parole di Dio che la guidano alla scoperta della ragione, le respinge a causa del suo disordine, diventa dura come il fango e, come Faraone, va alla perdizione. L'anima che ama Dio, in un caso simile, si ammorbidisce come la cera, e, ricevendo l'impronta delle immagini delle realtà divine diventa nello spirito l'abitazione di Dio (VI,6).

(Massimo il Confessore, Centurie sull'amore, in La Filocalia. Testi di ascetica e mistica della Chiesa Orientale, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1963)

B IRKAT HA-TORÀ (ca. IV secolo)

BENEDIZIONE DELLA TORÀ

Di amore eterno ci hai amati, Signore Dio nostro, una pietà grande e immensa hai manifestato per noi, Padre nostro e nostro re, in grazia dei nostri padri che confidarono in te, ai quali insegnasti a eseguire i precetti, statuti di vita. Così facci grazia e ammaestraci, Padre misericordioso e pietoso, abbi misericordia di noi e poni nel nostro cuore l'intelligenza per capire e comprendere e ascoltare e imparare e insegnare e osservare e eseguire e mantenere tutte le parole della tua Torà con amore, e illumina i nostri occhi con la tua Torà, e fa' ardere il nostro cuore ai tuoi precetti, e il nostro unico desiderio sia di amare e temere il tuo nome, poiché il tuo santo nome grande è proclamato su di noi. Facci grazia per onore del tuo nome. Dio grande, forte e terribile, presto, con amore, innalzaci e regna su di noi, e salvaci, a cagione del tuo nome. Perché in te abbiamo confidato, non saremo confusi, e nel tuo nome grande abbiamo cercato rifugio: non arrossiremo e non vacilleremo mai. Poiché tu sei nostro Padre e nostro Dio. La tua grande misericordia e pietà non ci abbandonino per sempre, e noi gioiremo e ci allieteremo nella tua salvezza. Fa' presto venire su di noi benedizione e pace, presto, dai quattro angoli del mondo, e facci giungere presto e sicuri alla nostra terra. Poiché tu sei un Dio che opera salvezza, e ci hai scelti tra ogni popolo e lingua, e ci hai avvicinati, o nostro re, al tuo nome grande, in verità, per lodarti e per dirti Uno con fede e amore. Benedetto Tu, o Signore, Colui che sceglie il suo popolo Israele con amore.

(Seconda benedizione che precede lo Shema' nella preghiera del mattino. Traduzione dall'ebraico di Paolo De Benedetti)


T ALMUD (ca. V secolo)

AMERAI IL SIGNORE DIO TUO

«E amerai il Signore tuo Dio».

Fu insegnato: R. Eliezer disse: Se fu detto: «Con tutta la tua anima», allora perché fu detto (anche): «Con tutte le tue facoltà»? E se fu detto: «Con tutte le tue facoltà», perché fu detto anche: «Con tutta la tua anima»? Ma ci può essere un uomo a cui la propria persona è più cara del denaro; per questo fu detto: «Con tutta l'anima tua». E vi può essere uno a cui il denaro è più caro della sua persona, e allora fu detto: «Con tutte le tue facoltà».

R. Aqibà disse: «Con tutta la tua anima» (significa): Anche se ti toglie l'anima. Insegnarono i nostri dottori: Una volta, il governo greco decretò che gli israeliti non potevano occuparsi dello studio della Legge. Venne Papos, figlio di Giuda, e trovò R. Aqibà che radunava molta gente e si occupava dello studio della Legge. Questi gli disse: Aqibà, non temi il governo? L'altro gli rispose: Ti darò un esempio: Una volpe camminava lungo il fiume e vide i pesci che si raccoglievano ora in un punto ora in un altro. Disse allora (la volpe): Davanti a chi fuggite? Le risposero: Davanti alle reti che gli uomini affondano contro di noi. Essa disse allora: Volete salire sulla terra asciutta e allora abiteremo io e voi assieme, così come dimorarono i padri miei con i vostri? Le risposero: Sei tu di cui si dice che sei la più scaltra fra le bestie? Invero non sei scaltra, ma stolta! Se nel nostro elemento vitale noi siamo presi da timore, tanto più lo saremo nell'elemento per noi mortale. Così anche noi: Se ora che ci occupiamo della Legge di cui si dice: «Invero, essa è la tua vita e la tua longevità» (Dt 30, 20), tale è la nostra sorte, se poi dovessimo staccarci da essa, tanto più (saremmo votati alla morte)!

IL MARTIRIO DI RABBI' AQIBA'

Si racconta: Non passarono che pochi giorni e R. Aqibà fu preso e imprigionato. Fu preso pure Papos, figlio di Giuda e fu imprigionato accanto a lui. Gli disse (R. Aqibà): Che cosa ti porta qui dentro? L'altro gli rispose: Beato te, R. Aqibà, che sei stato preso per via della Legge; e guai a me, Papos, che fui preso per cose futili! Allorché R. Aqibà fu portato al supplizio, era il tempo di recitare lo «Ascolta», e gli strappavano la carne con gli uncini di ferro, ed egli accettò il giogo del Regno dei Cieli [cioè si mise a recitare lo «Ascolta»]. Gli dissero allora i suoi discepoli: O nostro maestro, fino a questo punto (arriva la tua forza d'animo)? Egli rispose allora: Per tutta la mia vita io ero turbato dal versetto biblico: «Con tutta la tua anima», (interpretandolo): anche se Egli ti toglie l'anima! Io pensavo: quando avrò l'occasione per compiere ciò? Ora che ho l'occasione, non dovrei forse compiere tale precetto? Ed egli prolungò la parola: «Unico», finché non esalò l'anima, dicendo sempre la parola «Unico». Allora risuonò una voce celeste: Beato R. Aqibà che ha esalato l'anima con la parola «Unico». Dissero gli angeli ministranti dinanzi al Santo, Egli sia benedetto: Questo è lo studio della Legge e questo è il compenso? «Fu mortale dalla Tua mano, o Signore, fu mortale?» (Sal 17,14. Il significato dovrebbe essere: R. Aqibà avrebbe dovuto morire dalla mano tua, non per mano di un uomo). Egli (Dio) disse loro: «La loro sorte è nella vita eterna» (Sal 17,14). Risuonò una voce celeste che disse: Beato te, R. Aqibà, perché sei destinato per la vita futura.

(Il Trattato delle Benedizioni (Berakhot) del Talmud babilonese, UTET, Torino 1968, cap. IX, pp. 414-415)


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